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Il crollo possibile

Conviviamo, non certo da giorni, stabilmente, con la “crisi”… status evanescente, privo di certezze e garanzie, spauracchio di cui si fatica a vedere la fine; dalla “crisi” o ci si risolleva (e non se ne vedono i prodromi) o si crolla.
Mi chiedo: è giusto augurarsi un tonfo, un crollo totale?
 
La crisi genera incertezza, provoca un crepitio continuo, porta ad un colloso e perpetuo discorso su di essa, che porta, a volte, anche a gesti estremi. Per chi produce e commercia su media (a volte anche per chi lo fa su grande) scala non è certo uno stato di comodo, anzi, la crisi porta a dubitare sulla convenienza del rischio corso nel tentare di produrre guadagno, quando è la svalutazione a prendere il sopravvento.
 
Per i lavoratori dipendenti il termine “crisi” genera il terrore della disoccupazione e di quanto ne conseguirebbe, in termini sussistenza e sopravvivenza. Per il “popolo delle partite IVA” lo scotto da pagare si traduce, quando va bene, in una diminuzione degli incarichi ed in un rischio concreto di lavorare “gratis”. Per tutti, in generale, esclusi ricchi e cicale croniche, la crisi significa risparmio forzato oltre che graduale continua riduzione del consumo.
 
Ma torniamo al “nostro” crollo di cui leggiamo all’inizio.
Il “crollo” genera con certezza la fame per molti, della violenza e della mancanza di sicurezza per tutti e il rientro forzato di molti stranieri ospiti in patria, di certo sparirebbero quei lavori catalogati come “servizi” (figli diretti del mercato globalizzato) e rinascerebbe la manodopera “povera” nostrana.
 
Il “crollo” comprende anche il “tracollo economico”, la moneta sfiorisce e con essa sicuramente una fase dello stato (se non forse proprio l’esistenza futura dello stato stesso), il che genera di conseguenza implosioni, scissioni interne ed internazionali. Guerre e di riflesso si genera autarchia e mercato rigidamente blindato.
 
Dalle ceneri di un crollo si svilupperebbero di certo nuove e radicali idee che rappresenterebbe su più vasta scala quella minoranza che oggi si appella all’opposizione alle “forze del mercato” e che si rifiuta di uniformarsi ad una vita organizzata in funzione della “crescita infinita”.
 
Un collo significa di certo sofferenza, ma in modo proporzionalmente inverso anche speranza, vocabolo sparito dalla nostre menti in questi periodi nichilistici.
 
Un crollo economico e sociale di fatto polverizza e smentisce l’ideologia che ha guidato ad esso, la seppellisce per decenni, scardina i poteri arrogati.
Ritorniamo ancora alla domanda iniziale e interroghiamoci sul presupposto che sia immorale auspicare un crollo; può darsi lo sia, probabilmente lo è, ma senza il crollo il nichilismo continuerà ad imperare e nessuna speranza collettiva riuscirà ad affiorare. Il crollo chiederà lacrime e sangue, ma non vi è stata rivoluzione che non le ha richieste…il punto è se siamo disposti a barattare questo prezzo con una vita sostenibile, col rinascimento del localismo (coi suoi valori e le sue tradizioni), coi profumi, i sapori e i suoni che stiamo via via dimenticando.
 
Io comincio a pensare che risponderei sì.

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