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Il calcio alle nostre latitudini

Assistere ad una partita d’eccellenza o giù di lì, ma anche su di lì, da non tifoso ma da sportivo, rende chiara la convinzione che la netta differenza tra chi è ultras “dilettante” e chi invece è ultras di squadre più blasonate di serie B o serie A, stia nell’esposizione mediatica dei propri beniamini. 

Evidentemente è vero, se non si milita a lungo nelle alte sfere dei vari campionati, si teme la “ghettizzazione” del meridione calciofilo. Volley, basket, rugby, calcio a cinque, sono discipline sportive che si distinguono dal calcio nei medesimi gradi non professionistici in cui vengono praticati. Sono tra le discipline sportive di squadra più seguite in Calabria, molte lunghezze dopo il calcio. Il distinguo è stilistico e lo noti (anche) sugli spalti. Gli sport individuali sono altra storia.

Ebbene, chi non fosse abituato a passare le domeniche in stadi sgangherati nel mezzo del tifo di squadre, spesso anch’esse sgangherate, difficilmente avrebbe voglia di ripetere l’esperienza. Il tifoso dilettantistico è scindibile in due tronconi: l’ultras e il non-ultras. I primi sono gruppi più o meno affiatati che sfogano il loro stress da lavoro (e da non lavoro) in due ore di urla, battimani, sventolii di bandiere e tam tam di tamburi, sorridono e gioiscono ad ogni vittoria, imprecano e s’arrabbiano ad ogni sconfitta. Tra gli spettatori dei non-ultras, sono da distinguere coloro che stanno seduti e coloro che invece seguono la partita in piedi appoggiati alle balaustre. Più focosi quest’ultimi, li vedi e li senti interagire con i giocatori in campo in tutte le lingue, compreso il dialetto stretto. L’età media è più alta, capita spesso di vedere cuoi brizzolati o nudi digrignare i denti, ergersi ad esperti con gli amici. Il tono della voce deve sovrastare il tono dell’amico e i tam tam degli ultras quindi le urla fanno giungere i concetti espressi anche a quella sottocategoria che sta seduta comodamente sui seggiolini godendosi la partita come fosse davanti alla tv.

Se ne vedono (riguardo al gioco) e ascoltano (riguardo ai commenti) di tutti i colori. A tal proposito, i “buu” non sono tramontati a queste latitudini. Come tutte le mode, anche il paninaro giunse in Calabria dopo qualche anno dalla sua comparsa a Milano, molti tifosi sono tardivi nell’apprendere che un buu dagli spalti è un’esternazione razzista che può portare alla chiusura di un settore dello stadio, così come insultare l’origine territoriale o etnica di qualcuno, come più volte accaduto alle tifoserie meridionali negli stadi di Verona, Bergamo....

Assistere ad una partita d’eccellenza o giù di lì, ma anche su di lì, da non tifoso ma da sportivo, rende chiara la convinzione che la netta differenza tra chi è ultras “dilettante” e chi invece è ultras di squadre più blasonate di serie B o serie A, stia nell’esposizione mediatica dei propri beniamini. Capita sovente che un giocatore ospite segni e, dopo aver gioito sotto la “gabbia” dei suoi supporters, passando sotto il settore opposto, mostri il dito medio provocando la reazione di quella tifoseria in quel momento impegnata ad imprecare contro la propria difesa, magari allo stesso modo.

Alla stregua del tifoso sanguigno, una fetta delle dirigenze di squadre dilettantistiche in questi territori, che spesso si autodefiniscono “società giovani”, dove tutti parlano, dove tutti sanno o perlomeno credono di sapere, dove tutti sono impegnati a scaricarsi le responsabilità per gli errori commessi, dove le scelte, quelle sbagliate, sono sempre di altri, società dove tutti sono pronti a vantarsi per aver “salvato” l’onore del calcio paesano (o cittadino), questa fetta si “picca” e si offende se gli metti sotto il naso la verità quotidiana di progetti traballanti. Settori giovanili mutilati, creati spesso solo ed esclusivamente per non incorrere in penalizzazioni di punti o multe, in eterna conflittualità ideologica tra chi vede nello sport giovanile la crescita dell’uomo di domani, e chi invece vede esclusivamente l’investimento futuro.

Storie locali raccontano che troppi sono stati i flop di iniziative dirigenziali nate senza valutare le difficoltà economiche e temporali, inizi enfatizzati come toccasana per rinascite societarie, terminati in breve tempo senza concedere attenuanti. Spesso basta una sconfitta per far saltare le prime teste, i calciatori più esperti improvvisamente non sono più esperti, tacciati di scarso rendimento e non attaccamento alla maglia. Il nervosismo fa presto a spostarsi dagli spogliatoi agli spalti, è come un cane che cerca di mordere la propria coda. Si gira intorno al problema, le società cambiano, i giocatori anche, i tifosi no, restano attaccati ad una maglia che, in quanto tale, ha con loro un rapporto materiale e non umano. Quell’umanità che qualcuno cerca sugli spalti tra un vaffa e un dito medio, manifestazioni d’affetto che tengono sempre più lontane le famiglie, e se non lo fanno contribuiscono alla crescita del tifoso, non dell’uomo di domani.

Mai generalizzare ma evidenziare le grigie realtà che quasi ogni domenica e in quasi tutti gli stadi vedono correre 23 “dilettanti”, è un operazione che rende giustizia almeno a quegli sport che trasformano in festa ogni loro incontro. Il calcio è malato … alle nostre latitudini.

 

Foto: Fabrizio Sciami/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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