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Il buio dietro la crisi

Non si placano i movimenti della moneta europea, ma questa potrebbe essere una settimana di svolta.

La tempesta finanziaria di questi giorni è stata spesso commentata come un fatto dovuto ad una sorta di "cattiva" speculazione che in qualche misura poteva addirittura essere mirata a provocare una caduta dell'Euro. Questo senza specificare chi, e in che modo, sarebbe avvantaggiato da un'ipotetica scomparsa della moneta europea. Tali voci si erano già levate in primavera, quando "sussurri e grida" contro la tenuta dell'euro, e più precisamente di Portogallo, Spagna e, guarda caso, Irlanda, venivano fatte circolare con insistenza, e sempre poco prima che chiudessero i mercati, portando ovviamente denaro a chi contro l'euro aveva scommesso.

Ma parlare di tentativi per indebolire l'Euro potrebbe essere fuorviante, ed impedire di vedere che, semplicemente, si tratta di pura ricerca del guadagno, senza colore politico, senza intento destabilizzante, e senza inutili dietrologismi. Speculazione, appunto. D'altra parte, che alcuni, o parecchi, stati dell'Unione sarebbero presto stati in difficoltà era una facile profezia, all'inizio dell'estate. Che, ovviamente, gli investitori hanno cercato di monetizzare.

E' il capitalismo, bellezza: si fanno soldi in tutti i momenti in cui se ne ravvisi l'opportunità, e se ciò comporta la caduta di un governo o l'impoverimento di una popolazione, non c'è una sola persona la mondo che se ne senta in qualche modo responsabile. Certo la Bce si trova in difficoltà di fronte a questi attacchi, e cerca di correre ai ripari anche diffondendo messaggi tranquillizzanti dopo che, a lungo, proprio le preoccupazioni manifestate dai vari capi di governo europei avevano ulteriormente appesantito l'atmosfera. Per convincere gli investitori a comprare titoli del proprio paese, Spagna Grecia e Portogallo (ed ora anche l'Italia, sia pure in misura ridotta) devono remunerarli parecchio in più rispetto alla Germania, e sono proprio questi spread il termometro della fiducia che il mondo finanziario ripone in un dato paese.

Appena si innesca un meccanismo di questo tipo, la speculazione al ribasso (ma anche al rialzo) non si ferma finché gli investitori ritengono di avere margini di guadagno e questo può causare vere e proprie tempeste finanziarie che, apparentemente, dimostrano la consistenza e la gravità di una crisi in atto. In questi giorni poi la crisi interna italiana, con il suo "votamercato", la paralisi del Parlamento ed il conseguente vuoto politico (ebbene sì, ancora più vuoto) hanno acuito i timori degli osservatori stranieri circa un possibile "contagio" dai paesi in maggiore difficoltà.

Ma la crisi vera che stiamo vivendo è solo apparentemente dovuta alla speculazione; d'altra parte, Marx ben più di un secolo fa aveva sostenuto che le crisi finanziarie non sono che lo specchio, sul quale tutti concentrano la propria attenzione, del problema che c'è dietro, che invece è economico tout-court.


La sovrapproduzione fa sì che gli imprenditori, per mantenere inalterati o aumentare i profitti, si rivolgano alla speculazione finanziaria per ottenere ricavi alternativi a quelli derivanti dalle loro imprese; nel contempo, per non comprimere la capacità di spesa dei lavoratori si favorisce il loro accesso al credito, attraverso prestiti, carte di credito e mutui agevolati (subprime, vi ricorda qualcosa?)

Alla fine è inevitabile che la forzatura faccia saltare il banco, e non importa poi molto da dove salti per primo. Che siano i lavoratori non più in grado di onorare i propri debiti, a seguito del pesante indebitamento a fronte di salari tendenti al ribasso; che siano gli imprenditori che decidono di abbandonare produzioni e luoghi non più remunerativi, facendo mancare ai dipendenti la fonte di reddito, in ogni caso il cerchio si spezza.

La crisi degli ultimi giorni ha dato una nuova visione in prospettiva della stessa emergenza del 2008: gli aiuti alle banche sono costati moltissimo alle popolazioni e non hanno prodotto, per ora, alcun tipo di ritorno economico "benefico": le somme sono state usate per sistemare i bilanci, evitare i fallimenti e poi si è ripartiti subito con la speculazione selvaggia svincolata da qualsiasi tipo di controllo da parte dei governi. Mentre gli stati incassano aiuti dall'Unione Europea vincolati a rigidissime ed impopolari politiche di risparmio sociale e di bilanci in pareggio, le istituzioni finanziarie hanno conservato mano libera nelle proprie iniziative. Certo, gli stati hanno scelto di salvare le banche ben consci che un loro fallimento avrebbe trascinato al collasso tutto il sistema. Questo tipo di intervento, però, non è certo stato a costo zero, e per molti anni ancora gli americani, ed ora anche gli europei, pagheranno i debiti di questo biennio nero, in alcuni casi peggiorato proprio dalla speculazione resa nuovamente possibile dalle iniezioni di liquidità nel sistema.

Alla fine, ciò che preme chiarire è questo: l'Unione Europea è zoppa in quanto non esiste un tessuto unitario del paese dietro all'unione economica e finanziaria; in quanto zoppa, è più debole e quindi più sensibile alle pressioni speculative, da qualsiasi parte e con qualunque intento queste siano mosse. E, spesso, dietro a questo ci sono proprio le grandi banche d'affari appena salvate dal collasso. Gli stati però potrebbero trovare un singolare, e non indolore, terreno comune nella rivolta sociale contro i pesanti tagli al welfare, all'occupazione ed ai salari. Una rivolta che abbiamo già visto esplodere in Grecia e che ancora non si è placata, ora potrebbe contagiare anche Irlanda e Spagna, dove segnali in questo senso si sono già visti. La finanza non è né cattiva né buona: i Governi, invece, in base alle scelte che decidono di fare, cattivi o buoni lo sono eccome: ma non sempre la risposta immediata è quella giusta.

Le banche, tranne le banche centrali, se lasciate a sé stesse buone non possono esserlo, e non possono esserlo per definizione, poiché a loro spetta guadagnare soldi esercitando il credito e gli investimenti, non sviluppando benessere e stabilità sociale. Ma allora ci si deve chiedere perché le istituzioni sovranazionali attendano da queste ultime comportamenti spontaneamente virtuosi mentre bacchettano e vincolano rigidamente le scelte dei singoli stati, soprattutto in tema di politica economica e sociale.

Ma se gli stati non possono intervenire, e sono ancora rigidamente divisi sotto il profilo politico ed organizzativo ed in più impoveriti poiché devono trasferire parte del debito privato sulle proprie spalle, mentre gli enti sovranazionali non hanno la forza, o la volontà, di coordinare con nuove e diverse regole del gioco i movimenti finanziari e speculativi, appare chiaro che, superata questa fase della crisi, altre simili se ne presenteranno all'orizzonte.

Prevederne già da ora modalità e sviluppi è ovviamente puro esercizio di stile, visto che sarà l'unica condizione per cui si inizierà a parlare di nuove regole è facile profezia. Chissà però dopo quante parole se ne accetterà un'effettiva realizzazione.

Commenti all'articolo

  • Di alessandro tantussi (---.---.---.123) 14 dicembre 2010 23:52
    alessandro tantussi

    I DISCORSI LI PORTA VIA IL VENTO
    con il minor deficit e con il minor aumento del debito abbiamo assicurato un tasso di disoccupazione che è la metà di quelllo della Spagna o del Portogallo (per non parlare dell’Irlanda o della Grecia) pressappoco pari a quello della Germania ed a quello degli USA che pure hanno inutilmente speso MONTAGNE di dollari seguendo la vecchia teoria (keynesiana?) della spesa pubblica,
    e non dimentichiamo che tipi di provvedimenti hanno dovuto prendere in altri paesi:

    IRLANDA. La manovra finanziaria consiste in tagli totali alla spesa pubblica per 10 miliardi, aumento di entrate fiscali per 5 miliardi, decurtazione del salario minimo di un euro a 7,65 l’ora, tagli al welfare per 2,8 miliardi e agli investimenti pubblici per 3, taglio del 10 per cento al salario dei neo-assunti nel settore statale.
    Il risparmio di spesa da 10 miliardi sarà inoltre ottenuto con 24.750 licenziamenti nel settore pubblico (su 4,5 milioni di abitanti, qualcosa come licenziare oltre 300.000 statali in Italia), mentre viene confermata la fiscalità al 12,5% per le aziende, aumento dell’Iva dal 21 al 23%, ed entrate extra di 1,9 miliardi da imposte su redditi.
    Dopo le crisi del debito che hanno colpito Grecia e Irlanda, l’attenzione degli investitori si sposta sugli altri due “Pigs”, Spagna e Portogallo.
     
    SPAGNA. Se Lisbona ha negato di aver subito pressioni dai partner dell’eurozona perché chieda accesso al fondo di emergenza, un’analoga smentita arriva da Madrid, per bocca del primo ministro José Luis Rodriguez Zapatero il quale sostiene che gli investitori che scommettono su un default della Spagna "sono in errore e andranno contro i propri interessi" e ha assicurato che la Spagna non ha in programma ulteriori aumenti delle tasse né altri tagli occupazioni nel pubblico impiego.
    Sta di fatto che il risanamento del deficit statale presentato dal governo di Madrid ha lo scopo di tagliare 15 miliardi di euro di spese entro il 2011, dopo le già pesanti riduzioni salariali dei dipendenti pubblici e il congelamento delle pensioni.
    Un progetto neoliberista degno di un governo di destra quello portato avanti dal socialista Zapatero, il piano ruota attorno alla demolizione della contrattazione collettiva, a una maggiore flessibilità dei contratti di lavoro, alla riduzione dell’indennità di licenziamento e all’indicizzazione dei salari rispetto la produttività anziché all’inflazione.
    L’obiettivo del premier spagnolo è quello di riportare il rapporto deficit/pil sotto il 3%, contro l’11,4% registrato nel 2009 e allontanare la Spagna dal baratro della bancarotta e non fare la fine della Grecia.
    Il piano del governo non prevede alcun intervento a favore dell’occupazione a fronte di un tasso di disoccupazione salito al 20%, pari a 4.7 milioni di lavoratori, il doppio della media Ue.

    PORTOGALLO. Mentre la speculazione internazionale scommette contro il Portogallo, il parlamento di Lisbona corre ai ripari approvando la finanziaria 2011. L’obiettivo della manovra è portare il deficit del paese dal 7,3% al 4,6% in un anno, attraverso duri tagli alla spesa e aumenti delle imposte. L’esecutivo ha approvato un taglio del 5% dei salari dei dipendenti pubblici e un aumento dell’Iva dal 21 al 23%. Accresciute anche le imposte sulle pensioni, seguite dal congelamento dei rapporti di fine lavoro, a cui si aggiungono i previsti tagli ai sussidi.
    La manovra economica è stata definita dai sindacati “una dichiarazione di guerra ai lavoratori” e in effetti gli scioperi non si sono fatti attendere: aerei e treni fermi, servizio minimo negli ospedali, stop alla raccolta dell’immondizia nei centri urbani.
    Mercoledì scorso in Portogallo è stato il giorno dello sciopero generale, contro il pesante giro di vite anti-deficit deciso dal governo socialista sotto pressione di Bruxelles e dei mercati, proclamato dai due principali sindacati. L’ultima astensione dal lavoro di questo tipo risaliva al 1988.
    Il sindacato Portoghese ha ricevuto la solidarietà dei colleghi Italiani, il governo Socrates – ha commentato Nicola Nicolosi, segretario nazionale Cgil e responsabile del Segretariato per l’Europa – ha congelato i salari, aumentando l’Iva su molti prodotti, tra cui i generi di prima necessità, e tagliato i servizi sociali in un Paese dove il salario minimo arriva malapena a 470 euro al mese.
    Mentre le piazze si riempivano di tutte le categorie di lavoratori, sui bond del Portogallo a 10 anni i rendimenti hanno superato la soglia del 7 per cento.
    Il documento finanziario è stato adottato con il voto favorevole dei socialisti, che guidano un governo di minoranza, ma anche grazie all’astensione del principale partito d’opposizione che ha garantito il proprio appoggio al piano di austerità del primo ministro socialista José Socrates.

    USA L’incredibile montagna di dollari che Obama ha speso per frenare la crisi non ha prodotto grandi risultati. Le difficoltà economiche e finanziarie che si apprestano a vivere gli USA, inevitabilmente sfoceranno in un piano di austerità, con un forte taglio alle spese sociali. Queste, in aggiunta all’aumento delle tasse e del tasso di disoccupazione, potrebbero portare ad una crisi sociale di portata storica.
    Eppure che anche quest’anno gli USA, per sostenere l’economia, hanno registrato un deficit di bilancio superiore al 10%, come si verifica ormai costantemente dal 2007 (in ITALIA il deficit è intorno al 5%)
    Obama prosegue la politica intrapresa da Bush, dei forti aiuti di stato alle imprese in crisi, ma Il debito pubblico USA viaggia con un ritmo di crescita che rispetto al 2002 è aumentato di 12 volte, nel 2002 cresceva al ritmo di 0,5 miliardi di dollari al giorno mentre oggi viaggia alla folle velocità di 6 MILIARDI DI DOLLARI AL GIORNO.
    Recentemente Obama ha dichiarato che si dovranno ridurre gli stipendi degli statali,nel contempo la riforma sanitaria viene messa in dubbio.
    Non è che tutto questo abbia portato a grandi vantaggi: la disoccupazione sia attesta attorno al 10% e le banche continuano a fallire.

     

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