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 Home page > Tribuna Libera > Il Partito nel Partito: l’eterna sindrome del Pd

Il Partito nel Partito: l’eterna sindrome del Pd

L'approvazione al Senato della legge elettorale, che torna ora alla Camera, registra diversi malumori all'interno del Pd, dove 26 senatori non hanno votato l'Italicum. Questa volta Forza Italia non è stata determinante, come sull’emendamento Esposito, e per tre voti la maggioranza sarebbe stata autosufficiente nonostante il mancato appoggio dei senatori Pd. 
 
Si è confermato quindi, come annunciato negli scorsi giorni, che la minoranza del Partito Democratico, in questo caso al Senato, definita da Renzi "un partito nel partito", non ha votato l’Italicum, costruito in un delicato equilibrio con gli alleati delle riforme (Ndc e Forza Italia).
Uno scontro ormai in scena da diversi mesi che rafforza i venti di scissione dentro il Pd e rischia di causare un corto circuito politico in vista dell’elezione del futuro Capo dello Stato. 
Ad accentuare la frattura tra la minoranza dem e il resto del partito democratico, dopo lo scontro sul "Jobs act", è il tanto contestato Italicum, e l'approvazione dei capolista bloccati. 
In questa circostanza è chiaro che, dopo un anno di governo Renzi, dopo mesi di trattative in commissione ed emendamenti in aula, ora non è più tempo di tecnicismi, mediazioni, o continue discussioni sterili. 
 
Le riforme devono finalmente essere approvate per uscire dalla palude della crisi della rappresentanza, causata in questi anni dal "porcellum", senza errori né incidenti di percorso.
Tra l'altro la contestazione della minoranza appare per certi versi inspiegabile, perché la riforma elettorale per molti aspetti è in linea con le richieste storiche del Pd: sulle soglie, sulle preferenze, l'alternanza di genere e il doppio turno. Sicuramente non è la legge elettorale migliore del mondo, poiché frutto di un compromesso con Forza Italia, che grazie a Berlusconi ha per adesso ottenuto solo i capolista bloccati nei collegi, comportando la reazione sdegnata della minoranza dem. 
D'altronde Renzi ha sempre detto che le regole del gioco e le riforme si fanno con un consenso più ampio possibile in Parlamento e con chi ha seriamente voglia di portarle a termine. 
Sul fronte dell'opposizione il Movimento 5 Stelle purtroppo da tempo ha deciso di non partecipare alla vita democratica di questo paese, dalla nuova legge elettorale alle riforme costituzionali, fino alle continue giravolte sull' elezione del Presidente della Repubblica.
Resta dunque in vigore il patto del Nazareno tra il premier e il Cavaliere.
 
Bicameralismo perfettto, riforma del Senato, legge elettorale, taglio delle provincie, riforma della pubblica amministrazione, Jobs Act, ecc.. sono solo alcuni dei provvedimenti portati a casa dal governo Renzi, mentre altri sono in fase di approvazione. Sicuramente ci sarebbero margini di miglioramento, come ogni azione umana del resto, ma la novità è che dopo tanti anni di chiacchiere finalmente le cose sembrano indirizzarsi realmente verso un percorso concreto di cambiamento.
 
Per questo appare puttosto incomprensibile la posizione tenuta dalla minoranza del Partito Democratico, che ad ogni passaggio parlamentare ha tenuto un atteggiamento più da movimento di opposizione che come componente essenziale ed integrante della maggioranza di governo. Un partito nel partito.
Ma alla base di questo scontro c'è proprio una diversa visione delle strategie politiche, della società italiana, delle misure anticrisi, delle riforme, dell'approccio al mondo del lavoro, come dimostra anche l'ammiccamento continuo alla Cgil o alla Fiom di Landini, o la rocambolesca vicenda di Cofferati, la cui candidatura in Liguria a tanti è sembrato più l'ennesimo tentativo da parte della minoranza dem di creare un nuovo laboratorio politico, proprio in quella regione, per riprendere in qualche modo le redini del partito e spezzare così il dialogo con il centrodestra. 
Adesso la partita tra Renzi e la minoranza del Pd si è spostatata sul fronte dell'elezione del Capo dello Stato, anche qui si spera che possa prevalere la ragionevolezza e si possa trovaro un candidato unitario, per evitare la brutta figura che fece il Pd nel 2013, dove "i 101 franchi tiratori" impedirono l'elezione di Romano Prodi. Se l'esperienza e gli errori del passato insegnano ancora qualcosa, i vari Cuperlo, Fassina e Civati dovrebbero tenerlo bene in considerazione.
 
Per il resto il dialogo e le alleanze su certi provvedimenti tra schieramenti opposti esiste in tutte le democrazie occidentali mature, compreso la Grecia, dove Tsipras, pur vincendo l'elezioni, è stata costretta ad allearsi con "i greci indipendenti", una formazione di destra.

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