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I volti senza nome di via D’Amelio

C’è un pezzo della nostra storia, un pezzo grande, un enorme buco nero, che rimane tuttora irrisolto. È la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 dove persero la vita il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Strage di mafia? Certamente. Eseguita grazie alla coincidenza di interessi politici e la collaborazione attiva di alcuni frammenti, deviati, dello Stato? Ogni anno che passa emergono dati nuovi che sembrano condurre su questa ipotesi. Oggi a far emergere nuovi dettagli sulla vicenda sono le dichiarazioni, in alcuni punti discordanti, di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo pluri inquisito e condannato Vito, e quelle di un killer condannato a vari ergastoli, Gaspare Spatuzza, che si auto accusa di aver partecipato con un ruolo marginale alla strage. Su questa vicenda sono già stati portati a sentenza definitiva ben due processi. Ma, se non per quanto riguarda il ruolo di alcuni “gregari”, non si conosce ancora il nome e il volto di chi ha eseguito materialmente la strage, di chi ha premuto il pulsante del radiocomando che ha fatto esplodere la 126 carica di esplosivo militare posta davanti al portone dell’anziana madre di Paolo Borsellino. E soprattutto non hanno ancora un nome i mandanti occulti.
 
Sulla strage di Capaci si sa molto, certamente non tutto, ma il percorso della ricerca della verità storica e processuale è andato molto avanti. Tutt’altro scenario quello della strage di via D’Amelio. Perfino a partire dalla scelta del luogo dell’attentato. «Per scegliere quel posto ci sarà stato ben un motivo - racconta Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso – perché Paolo sarebbe stato facilissimo ucciderlo a casa sua, a Villa Grazia. Se passi dall’autostrada vicino al villino dove viveva vedi benissimo le sue finestre. Ci potevi addirittura sparare dentro o buttare una bomba dall’autostrada per farlo fuori. E poi. Lui si faceva sempre il bagno a Villa Grazia di Carini. Bastava un niente, perfino una fiocina. Non era irraggiungibile. Altro discorso per via D’Amelio, che per come è posizionata in città rappresenta una serie di difficoltà logistiche enormi per gli assassini e solo una particolarità: quella di essere sotto la visione perfetta di Castel Utveggio». Dal Castel Utveggio, su monte Pellegrino, via D’Amelio in effetti si vede proprio bene. È ormai “verità” processuale che il Sisde (riportata nelle sentenze del cosiddetto processo Borsellino bis) vi avesse impiantato da tempo una sede sotto copertura. E il 19 luglio 1992, una classica domenica estiva palermitana, Castel Utveggio, da quello che è emerso dalle indagini successivamente, è in piena attività. Pochi secondi dopo la strage, proprio da qui parte una telefonata che raggiunge Bruno Contrada, al tempo capo del Sisde a Palermo. La telefonata arriva dal telefono di Paolo Borsellino. Si tratta, evidentemente, di un’utenza clonata. Da chi? Mistero. E ancora. Di solito il castello è deserto la domenica, poi figuriamoci a luglio. Dopo tutto ufficialmente era solo la sede di una scuola di formazione per manager aziendali. Quella domenica, però, nel castello c’è “movimento”. Tanto movimento. Troppo movimento. E andiamo avanti. Lorenzo Narracci, al tempo funzionario del Sisde a Palermo, riceve una telefonata da Contrada 80 secondi dopo l’esplosione dell’autobomba. Per intenderci, poco più di un minuto dopo l’esplosione il Sisde già è pienamente operativo, mentre la polizia ancora arranca per capire cosa sia successo e dove. Poi Narracci non è sconosciuto agli investigatori che stanno seguendo l’inchiesta sulla strage di Capaci, e risulta infatti titolare di un numero di cellulare annotato su un biglietto rinvenuto proprio sul luogo dove gli assassini di Falcone azionarono il telecomando che innescò il tritolo lungo l’autostrada fra Punta Raisi e Palermo. Su come sia finito il numero di telefono di un funzionario dei servizi italiani proprio nella casupola utilizzata da Cosa nostra per dare via all’attentato di Capaci c’è un altro funzionario della Polizia che, sempre dagli atti processuali, racconta di essersi perso lui, durante il sopraluogo, il biglietto con il numero. Comunque una vicenda che allarma, se non altro per la “leggerezza” con cui un utenza di un agente circolasse con tale facilità e mancanza di riservatezza.

A seguire questa pista è Gioacchino Genchi, all’epoca dirigente della Polizia di Stato a Palermo con l’incarico di direttore della zona telecomunicazioni del ministero dell´Interno per la Sicilia occidentale e dirigente del nucleo anticrimine sempre per la Sicilia occidentale. Genchi, per chi si occupa di inchieste giudiziarie, non è uno sconosciuto. Lo scorso anno, per esempio, è salito alle cronache come l’uomo chiave dell’inchiesta “Why not” condotta dal pm Luigi De Magistris a Catanzaro. Insomma, quantomeno uno che di telefoni ne capisce. Il giorno stesso della strage di via D’Amelio Genchi si precipita sul luogo della strage con il capo della mobile La Barbera e quella sera stessa compie un sopralluogo sul monte Pellegrino presso il castello Utveggio. La sentenza del processo Borsellino bis riporta, testualmente: «Il dr. Genchi ha chiarito che l’ipotesi che il commando stragista potesse essere appostato nel castello Utevggio era stata formulata come ipotesi di lavoro investigativo che il suo gruppo considerava assai utile per ulteriori sviluppi; essa tuttavia era stata lasciata cadere da chi conduceva le indagini al tempo. Il dr. Genchi esponeva tutti gli elementi sulla cui base quella pista era stata considerata tutt’altro che irrealistica». Elementi, quelli accolti dalla Corte e presentati dall’investigatore, davvero inquietanti. Utenze clonate, rete di comunicazioni lungo il percorso per via D’Amelio già operativa da giorni, intrecci fra pezzi di Stato e “altro”. «Nel castello aveva sede un ente regionale il C.E.R.I.S.D.I., dietro il quale avrebbe trovato copertura un organo del Sisde – si legge nella sentenza -. La circostanza era stata negata dal Sisde che aveva così esposto ancor più gli uomini del gruppo investigativo costituito per indagare sulla strage». E non solo. Il poliziotto punta la sua attenzione per una ragione specifica sul castello. E infatti spiega alla Corte di Caltanissetta: «Rilevo che il cellulare di Scaduto, un boss di Bagheria condannato all’ergastolo fra l’altro per l’omicidio di Ignazio Salvo che aveva tutta una serie di strani contatti con una serie di utenze del gruppo La Barbera. Cioè, del gruppo degli altofontesi, di cui parlavo anche in relazione a quei contatti con esponenti dei servizi segreti, rilevo che questa utenza aveva pure contatti con il C.E.R.I.S.D.I. Quindi, questo C.E.R.I.S.D.I. mi ritorna un po’ come punto di triangolazione di questi contatti telefonici di vari soggetti che erano stati sottoposti in indagini su procedimenti diversi per fatti diversi». E Genchi prosegue raccontando di una strana telefonata che arriva al Castello nei giorni che precedono la strage. «C’è pure una telefonata, se ricordo bene, mi pare… di Scotto al C.E.R.I.S.D.I. Ovviamente, non so, avrà fatto un corso di eccellenza, perché là preparano manager, non so, avrà avuto le sue ragioni per telefonare». Scotto chi è? C’è un certo Pietro Scotto, dipendente della società di servizi telefonici Elte, che ha un fratello, Gaetano, sospetto mafioso appartenente alla famiglia di Cosa Nostra del rione Acquasanta di Palermo. Ed è proprio Gaetano a mettersi in contatto con utenze del C.E.R.I.S.D.I. nei mesi precedenti l’attentato. Una coincidenza? E chi ha messo in atto l’intercettazione delle utenze della parte della famiglia Borsellino residente in via D’Amelio? Comunque, nonostante Genchi individui da subito tutte queste connessioni, viene trasferito a indagini ancora in corso, e con lui anche La Barbera. E le coincidenze si sommano.

Andiamo ai giorni che precedono l’attentato. Si segnala nella sentenza del processo «la testimonianza di un agente DIA che si era trovato a fare da autista a Borsellino subito dopo l’interrogatorio di Mutolo, lo aveva trovato sconvolto e gli aveva sentito pronunciare nel corso di una conversazione telefonica la frase “Adesso noi abbiamo finito. Adesso la palla passa a voi“. Le telefonate erano dirette verosimilmente al Procuratore Vigna e al procuratore Tinebra (procuratore di Caltanissetta, ndr) che aveva appena iniziato a indagare su Capaci». È il primo luglio. Di quella giornata c’è traccia autografa di Paolo Borsellino. Una pagina di un’agenda, grigia. Non parliamo di quella rossa, dalla quale il giudice non si separava mai, e scomparsa sul luogo dell’attentato. Nei vari video girati subito dopo l’attentato si vede un ufficiale dei Carabinieri allontanarsi con la borsa, bruciacchiata, di Borsellino. Conteneva l’agenda? E in quali mani è finita? L’ufficiale è capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli. Viene assolto e i giudici credono alla versione dello stesso che afferma “l’irrilevanza” del contenuto della borsa tale da fargli perfino “dimenticare” di compilare un rapporto. Nell’agenda rossa Borsellino aveva iniziato a scrivere tutto ciò che accadeva dal giorno di Capaci. Come ha affermato Genchi «qualcuno si è fatto un’assicurazione».

Torniamo all’altra agenda, quella grigia che è fortunatamente ancora in mano ai familiari. «Nell’agenda – racconta Salvatore Borsellino – Paolo annotava a fine giornata gli incontri che aveva avuto, gli spostamenti e perfino le spese della giornata. Il primo luglio è a Roma alla Dia per interrogare Gaspare Mutolo che aveva deciso di collaborare. A metà pomeriggio interrompe l’interrogatorio e si reca al ministero degli Interni. Nell’agenda è riportato che incontra prima il capo della Polizia Parisi e poi alle 19 e 30 l’appena nominato ministro Nicola Mancino. Poi torna alla Dia. È nervoso, sconvolto. Lo racconta l’agente della Dia, e anche Mutolo. È distratto. Arriva perfino ad accendersi due sigarette contemporaneamente». Qualcosa è successo nella pausa della deposizione di Mutolo, nelle ore trascorse al ministero. Qualcosa che fa pronunciare a Paolo Borsellino la frase: «Adesso noi abbiamo finito. Adesso la palla passa a voi». Il primo luglio è il giorno di insediamento di Mancino, che però nega di aver avuto un incontro con il magistrato. Poi, specifica proprio in questi giorni: «Quel giorno ho stretto tante mani. Non ricordo Borsellino, ma non escludo di poterlo aver incontrato». La domanda sorge spontanea. Visto che Borsellino all’epoca era stato perfino candidato alla super procura antimafia, e che aveva un grado di visibilità e di consenso enormi, per quale ragione prima negare e poi fornire una mezza ritrattazione su un incontro “istituzionale”? Oggi Mancino è il vice presidente del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura. Questa vicenda, evidentemente, lo mette in grave difficoltà proprio nel momento in cui si trova a dover gestire la durissima battaglia sulla riforma della giustizia, i veleni dello scontra fra Procure e la sua proposta di aumentare il numero dei componenti non togati del Csm. Proprio perché la vicenda di via D’Amelio è ancora in gran parte irrisolta e piena d’ombre. «Mancino ha dichiarato che si sarebbe dimesso alla minima ombra di sospetto sul suo operato – prosegue Salvatore Borsellino –. E questo cos’è?»

Torniamo a questi ultimi mesi, alle novità – oltre all’agenda - emerse. Il primo spiraglio, dopo anni di silenzi attorno alla strage e al clima che si era creato a Palermo dopo la conferma all’inizio degli anni Novanta delle condanne del maxi-processo, lo ha aperto Massimo Ciancimino. «Ad oggi, il verbale di questa prima deposizione di Ciancimino junior è in parte coperta da omissis, ma quello che fa emergere comunque è una conferma dei sospetti che già da tempo avevamo», racconta Salvatore Borsellino. «Massimo Ciancimino racconta che la trattativa, quella che portò poi al famoso “papello” di Totò Riina con le richieste allo Stato da parte di Cosa nostra, iniziò non mesi dopo la strage di via D’Amelio, ma nei primi di giugno», ovvero nel periodo in cui il pm stava scavando sui mandanti ed esecutori della morte del suo amico e collega Giovanni Falcone avvenuta a maggio. Protagonisti di questa trattativa il capo dei Ros dei Carabinieri Mori, Vito Ciancimino (e lo stesso Massimo che è colui, per sua stessa ammissione, che ha il primo contatto con l’Arma), Totò Riina dal suo covo da latitante e il medico della mafia, il boss Antonino Cinà. Non solo, Ciancimino racconta anche che i contatti iniziali con i vertici di Cosa nostra avvenivano attraverso a Cinà ma che il “papello”, ovvero le proposte di Riina allo Stato, non fu consegnato a Vito Ciancimino dal medico della mafia, ma da “una persona distinta” il cui nome, però, per ora è coperto da omissis. Un altro colletto bianco? O un soggetto terzo? Le ipotesi, ovviamente, sono tante. Quello che è certo è che la trattava fra Stato e antistato è iniziata prima di quello che si pensasse, che già subito dopo la strage di Capaci e ben prima di quella di via D’Amelio la “parlata” era già cominciata e che i vertici dell’esecutivo in qualche modo ne dovevano essere almeno parzialmente informati.
 
Questo elemento crea chiaramente il sospetto che una delle motivazioni alla base dell’accelerazione dei preparativi (se non della decisione) dell’omicidio Borsellino, siano da cercare nel probabile rifiuto da parte del giudice di accettare tale trattativa. E che l’improvviso cambio di umore, il nervosismo, lo sconforto che questi comunica immediatamente ai colleghi Vigna e Tinebra il primo luglio del 1992, sia stato dovuto proprio all’aver appreso, in un modo o in un altro, da un soggetto o da un altro, della trattativa in atto.
 
Quasi a fare da “sponda” e contemporaneamente a mettere in discussioni le poche verità emerse dai vari processi sul 19 luglio 1992, è apparso non un nuovo pentito ma un soggetto dichiarante. Che si auto accusa di essere colui che ha rubato per la mafia il 126 utilizzato poi come autobomba a via d’Amelio. Si tratta di Gaspare Spatuzza, fra l’alto uno dei killer di padre Pino Puglisi, che con le sue dichiarazioni ha rimesso in discussione alcuni dei fondamenti del processo e aprendo di conseguenza la possibilità di una revisione. Il procuratore di Caltanissetta, Lari, ha dichiarato a proposito che «è ancora presto poter affermare che le rivelazioni di Spatuzza possano dare una svolta alle inchieste o capovolgere le sentenze, tutto quello che ci ha detto deve essere riscontrato e valutato con attenzione perché molti aspetti devono ancora essere chiariti». Ma l’ipotesi, anche se lontana, rimane ancora in campo. «Ho la sensazione che le dichiarazioni di Spatuzza – afferma Salvatore Borsellino – siano uscite fuori come elemento di disturbo dopo ciò che è emerso da Ciancimino junior. Anche perché se le rivelazioni di Spatuzza da un lato portano elementi diversi da ciò che è emerso dal processo Borsellino bis, fondato sulle dichiarazioni di Scarantino (anche questi si accusò di aver rubato il 126 usato nell’attentato, ndr), dall’altro non portano assolutamente nulla di nuovo su quello che riguarda il filone più importante, che è quello del castello Utveggio e poi su quelli che potremmo definire “i mandanti occulti”. Dichiarazioni che si limitano alla manovalanza della mafia. C’è comunque un elemento interessante, l’unico a mio avviso. Spatuzza, infatti, contrariamente a Scarantino che dichiara di aver consegnato la macchina a personaggi da lui tutti conosciuti e riconducibili a famiglie di Cosa nostra, afferma invece di aver consegnato l’automobile non solo a persone da lui conosciute come mafiose ma che era presente un altro uomo che non conosceva, che non aveva mai visto, e che comunque non sembrava essere legato a famiglie da lui conosciute». Un altro volto invisibile, senza nome, da sommare a quella che comincia a sembrare una folla di anonimi onnipresenti, amnesie, documenti scomparsi, trasferimenti affrettati di investigatori a indagini aperte, archiviazioni, funzionari infedeli, telefoni clonati. Spettatori, protagonisti, comparse, componenti che si sono dati appuntamento alle 16,58 e 20 secondi del 19 luglio 1992.

Commenti all'articolo

  • Di dino (---.---.---.130) 23 gennaio 2009 16:31

    Non ho letto tutto l’articolo ma è una storia molto simile ad altre (Aldo Moro, ecc.) e mi pare molto plausibile visti gli antecedenti. Poi sono eventi e prassi quasi normali in molti paesi del mondo. Naturalmente le prove la giustizia non le trova quasi mai o... Ho sentito una persona seria dire che per governare non basta essere onesto e capace ma anche intrigante, che senza l’intriga naturalmente criminale, a volte non si possono risolvere questioni complesse. L’agente segreto agli ordini di un ministro e conosciuto solo da lui, è vitale per la sicurezza dello Stato. Però, dico io può prestarsi a cose abominevoli, non degne dell’essere umano.

  • Di mabo (---.---.---.85) 24 gennaio 2009 12:57
    Grazie Pietro Orsatti
     
    La lettura di brani come il tuo riaprono, nelle persone sensibili che hanno vissuto quegli eventi, anche solo da semplici spettatori, ferite che difficilmente possono rimarginarsi anche a distanza di anni. Sull’onda emotiva, molti , all’epoca dei fatti, ben riassunti nell’articolo, si dichiararono indignati, disgustati e pronti a reagire.
    Come sono lontani quei tempi e quegli intenti e come sono vicini e attivi, invece, personaggi, che avrebbero dovuto scomparire dal panorama politico, locale e nazionale, a seguito di quegli eventi delittuosi.
    E’ proverbiale la labilità della nostra memoria, Chinnici, Falcone, Borsellino, Livatino, Cassarà, Saetta, La torre, Fava, Impastato, Puglisi e l’elenco potrebbe continuare, ( mi dispiace non poter riportare il nome di tanti, troppi altri uomini illustri), spesso sono ricordati solo dalla toponomastica cittadina o dalla intitolazione di scuole.
    Dice un proverbio siciliano: “Calati juncu ca passa la china” , che significa Abbassati giunco che passa la piena. Mi piace associare questi uomini a grandi alberi circondati da timidi giunchi, troppi giunchi, un mare di giunchi, pronti a piegarsi alla prima brezza, e si sa che i grandi alberi, quando passa la tempesta perdono i rami o vengono abbattuti.
    Solo quando questi alberi isolati diventeranno una foresta, la tempesta farà loro, solo il solletico.
     
    Tutti i “non ricordo” pronunciati dai protagonisti di queste vicende sono un insulto alla loro ed alla nostra intelligenza. Forse il maggior torto, che hanno avuto le vittime, è stato quello di fidarsi di questi smemorati.
     
    Gli attentati eccellenti non potevano essere eseguiti senza la copertura o meglio la collusione di alti livelli istituzionali.
    Da queste parti, ma forse anche altrove, il confine tra istituzioni e malavita è difficilmente distinguibile e tutti ne sono al corrente quando si recano alle urne.
     
    E’ il trionfo dell’ipocrisia.
     
    Un saluto.
    Mauro Bonaccorso.

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