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I traditori dell’Italia

L’economista Nino Galloni ha le idee molto chiare sulle cause dell’involuzione economica nazionale e internazionale, e anche su come uscire dalla profonda crisi italiana.

Nel saggio “Chi ha tradito l’economia italiana?” (www.editoririuniti.net), Galloni analizza le principali dinamiche della globalizzazione finanziaria e le forti ripercussioni sull’economia italiana. Per Galloni i grandi problemi economici globali nascono nel momento in cui i membri privilegiati del gotha della finanza hanno deciso di farsi remunerare con interessi finanziari medi molto più alti di quelli realizzabili nell’economia reale. “Un rendimento delle attività finanziarie stabilmente più elevato di quello produttivo, infatti, non è sostenibile e produce crisi e dissesti immediati ovvero li differisce ingrandendoli”. Quindi in Occidente per sopravvivere ci si è ritrovati nell’incresciosa situazione di “scegliere tra salvare le regole e i buoni salari oppure i posti di lavoro”.

Comunque in Italia l’economia inizia a soffrire nel momento in cui sono aumentati i costi per pagare gli interessi sui titoli del debito pubblico, a causa della traumatica e strana separazione tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia. Galloni ci ricorda anche l’immotivato attacco giudiziario a Baffi e Sarcinelli che anticipò la fine della sovranità monetaria italiana. Forse l’operazione fu pilotata da qualche potenza straniera che si finge amica e saggia.

Infatti il caso scoppia nel 1979 e già nel 1981 viene decisa la rinuncia dello Stato italiano alla preziosa sovranità monetaria sancita dalla Costituzione. Del resto nel 1986 il faccendiere Francesco Pazienza testimoniò sul ruolo decisivo della Loggia massonica P2 in questo attacco a tradimento. Inoltre ci fu il caso anomalo di Aldo Moro che decise di far stampare le 500 lire di carta direttamente a nome dello Stato e che morì nel 1978 dopo un rapimento di stampo militare.

Negli ultimi anni gli economisti e i politici più importanti sono diventati schiavi delle comunicazioni dei sistemi bancari e finanziari. Agitano il fantasma dell’inflazione e continuano a saccheggiare le rimanenti risorse economiche per tentare di ripagare i debiti incalcolabili accumulati con la compravendita fittizia di derivati. In effetti le banche americane, “le banche tedesche e francesi (per non parlare delle spagnole e delle inglesi) sono piene di titoli tossici, il cui ammontar supera di decine di volte quello di tutti i debiti pubblici dei Paesi al di qua e al di là dell’Atlantico”.

A ben pensare “l’emissione di banconote produce inflazione se e solo se la capacità supplementare di acquisto così creata non trova i beni e i servizi aggiuntivi che vengono domandati; per contro, l’ulteriore emissione di titoli del debito pubblico, seppure a bassi tassi di interesse che, a livello nazionale, dovrebbe essere evitata, ma che un sistema di Stati può garantire facilmente, avrebbe come unico limite il pareggio tra il tasso di interesse del debito aggiuntivo e il tasso di crescita medio dello stesso sistema di Stati che li emette” (p. 20).

Inoltre l’inflazione reale non riflette i prezzi internazionali di mercato legati alla vera domanda e offerta di beni, ma è invece legata alle forti speculazioni estremizzate dai pochi potenti presenti nei vari circoli finanziari (i titolari e i manager dei fondi d’investimento e delle banche d’affari). Di conseguenza anche il mercato del lavoro è stato falsato e devastato. Inoltre per l’Italia “è possibile che il milione di prepensionati abbia trovato occupazione nel sommerso; anche questo pare abbia contribuito, dopo gli anni ’80, a cambiare il mercato del lavoro”.

D’altra parte “Un po’ di buon senso avrebbe permesso di considerare più attentamente che l’unico caso di sicuro successo della flessibilizzazione in quanto tale si registra durante le fasi di elevata, massima o piena occupazione!”. La flessibilizzazione non deve diventare precarietà e non andrebbe usata per ridurre il costo del lavoro: “se l’elemento discriminante dell’assunzione e della continuità risulta il costo e non la professionalità, è logico che la velocità del “turn over” aumenti vertiginosamente, a scapito degli interessi produttivi”. Questa è sicuramente una delle concause degli scarsissimi incrementi di produttività dell’economia italiana di questi ultimi quindici anni.

Alcune soluzioni potrebbero essere queste: detassare quasi completamente il lavoro e ridurre le imposte sulla produzione (tranne per i prodotti di lusso). Galloni suggerisce di seguire l’esempio della Gran Bretagna che non fa pagare l’Iva sui beni di prima necessità. Naturalmente dovrebbero aumentare le tasse sulle transazioni finanziarie più speculative e bisognerebbe creare una nuova Agenzia che “non solo gestisse i debiti dei singoli Stati, ma che emettesse nuovi titoli europei per finanziarie lo sviluppo (al limite in cambio del pareggio di bilancio, per legge, nei Paesi aderenti)”.

Comunque per raggiungere un “equilibrio economico “di mercato”, occorrerebbe che il risparmio accettasse una remunerazione modesta, ma certa, e che il livello del tasso di interesse consentisse l’esistenza delle iniziative produttive corrispondenti al pieno impiego delle risorse”. In definitiva “La crisi attuale, paradossalmente, riduce la certezza per il risparmiatore che desiderasse accontentarsi del rendimento minimo, perché i gestori, anche di detto risparmio, sono gli stessi che – allo scopo di accaparrarsi i clienti e realizzare utili strepitosi dalle attività puramente finanziarie – riempiono i portafogli con titoli assurdi” e più o meno truffaldini (p. 91).

Probabilmente gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania (unita e federale), hanno imposto che il ruolo principale dell’Italia nella “divisione europea del lavoro” diventasse “quello di Paese consumatore e, solo secondariamente, di imprenditore e produttore”. Però gli italiani sono persone indipendenti e socievoli che non amano i sistemi totalizzanti e prima o poi troveranno il modo di allearsi con qualcuno per aggirare gli inganni istituzionali della dittatura finanziaria anglosassone (i Sassoni erano un antico popolo germanico).

Nino Galloni non è solo un’economista teorico: è stato direttore generale del Ministero del Lavoro e funzionario in diversi ministeri finanziari. È stato uno stretto collaboratore di Federico Caffè, un ricercatore all’Università di Berkeley in California e ha insegnato nelle università di Roma, Milano, Napoli, Modena e Cassino. Ha pubblicato diversi saggi (ho recensito “Il grande mutuo” nel 2008).

P. S. Guardate qua

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