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I paesi ex URSS verso un’integrazione modello UE

A Mosca non si erano mai rassegnati alla perdita dell’impero, dopo il 1991, e il frettoloso accordo per creare una CSI (Comunità di Stati Indipendenti) fallì ben presto.

Tuttavia, dopo secoli di unione i legami politici, sociali ed economici costruiti in secoli di storia, talvolta imposti dalla Madre Russia, non potevano essere liquidati in fretta. I rapporti rimasero strettissimi con la Bielorussia di Lukashenko, intenzionato a far sopravvivere un regime autarchico fortemente anti-occidentale che non poteva non trovare protezione in nessuno se non in Mosca, così per i Paesi centro-asiatici che nonostante oscillazioni nazionaliste, islamiche e alleanze provvisorie con l’Occidente (spesso in funzione della guerra in Afghanistan), negli ultimi anni si sono riavvicinati a Mosca.

I furori nazionalisti degli anni ‘90 si sono sedimentati, e di fronte a un Occidente in crisi economica la Russia è entrata a far parte del mediatico gruppo dei BRIC (appunto Brasile, Russia, India, Cina), quel gruppo di Paesi emergenti a livello economico, soprattutto grazie a gas e petrolio, risorse di cui per esempio anche il Kazakhstan di Nazarbayev è ricchissimo. Inoltre moltissimi lavoratori delle repubbliche centro-asiatiche hanno trovato impiego in Russia, da cui mandano rimesse nei Paesi di origine, e nelle repubbliche, seppure in numero inferiore rispetto all’epoca sovietica, rimangono molti russi che costituiscono l’ossatura produttiva dei Paesi e rappresentano le élites istruite e tecniche, indispensabili per l’economia dei Paesi.

Nel 2010 per la prima volta è stata istituita una unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakhstan, ma è solo quest’anno che si è deciso di implementare una governance effettiva con la costituzione di una Commissione Economica Eurasiatica (CEE, sic!), in cui i tre Paesi hanno un voto ciascuno e le decisioni saranno prese solo tramite consensus, ed è stato anche istituito un Consigli Supremo con i capi di Stato e di governo. I contributi economici invece saranno naturalmente proporzionali al PIL dei Paesi e chiaramente sarà la Russia a fare al parte del leone.

La comunità è aperta, e cerca di attrarre le repubbliche ex-sovietiche ma non solo. Tagikistan e Kirghizistan hanno già dimostrato interesse, e del resto le loro economie sono molto integrate con la Russia, ma il target vero dei russi sarebbe coinvolgere l’Ucraina, con ragioni sia economiche che geo-politiche. Sarebbe un modo per dimostrare di sapere tenere a freno e contrastare l’occidente nella sua espansione a Est, soprattutto dopo avere già scalzato gli “arancioni” dal governo ucraino, passato ora in mano ai filo-russi. La Russia punta a allettare gli ucraini mostrando i vantaggi in riduzione del prezzo del gas (che è stato in passato motivo di attrito tra i Paesi) e maggiore appetibilità in Russia dell’export ucraino.

In generale si tratta di un mercato di 165 milioni di persone, con un PIL di quasi 2 mila miliardi di euro, quasi 700 miliardi di valore di commercio e 90 miliardi di barili di petrolio di riserve.

Non è certo grande come area di integrazione, essendo la sesta al mondo, e il PIL è di poco superiore a quello della sola Italia, tuttavia sono le prospettive future di allargamento e la posizione e le implicazioni geo-politiche ad essere rilevanti.

Infatti questo progetto (che dovrebbe, nella mente di Putin, diventare una Unione Eurasiatica modellata sull’Unione Europea, con legislazioni armonizzate) avrebbe un duplice obiettivo, sia interno che esterno.

Da un lato la Russia, di fronte all’incertezza internazionale, punta ad assicurarsi un aumento dei consumi e dell’interscambio interno, o meglio regionale, da ottenersi di pari passo a un ritorno dell’influenza politica sull’Asia centrale, favorito dal futuro necessario ritiro delle forze Occidentali dall’Afghanistan e quindi da un loro generale disimpegno in tutta l’area.

Dal lato esterno questa area eurasiatica si porrebbe come naturale ponte economico, complice l’ingresso russo nel WTO, tra l’Unione Europea e le economie emergenti asiatiche, prima fra tutte la Cina. E, si auspica, diminuirebbe la conflittualità tra un’area meno tumultuosa e rafforzata all’interno, e l’Occidente.

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