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 Home page > Tribuna Libera > I figli fanno l’(in)felicità?

I figli fanno l’(in)felicità?

Si sa, non c’è felicità più grande dei figli. Ce lo dicono tutti, dalla Chiesa alla pubblicità e ce lo diciamo in fondo l’una all’altra anche noi donne. Quante mamme dichiarano infatti che il giorno in cui sono nati i loro figli è stato il giorno più bello della loro vita, anche dopo 10 ore di travaglio? Il numero esatto non lo, ma a occhio e croce mi sembrano sempre troppe. Magari sarà vero, magari si sentirebbero cattive a dire che il giorno più bello è stato quando si sono innamorate per la prima volta, o quando si sono laureate con 110 e lode.

 

Eppure, gli studi scientifici in materia dicono uniformemente il contrario: sia in Europa che in America, le persone con figli si dicono più infelici rispetto a coloro che non hanno figli, oltre che a dichiararsi meno soddisfatti della vita coniugale, meno contenti di se stessi e del proprio benessere psicologico. Le più infelici di tutte, poi, sono le donne e non è difficile capire il perché. Avere figli è peggio di uno sport estremo: implica perdita di sonno, centuplicazione del lavoro domestico e delle preoccupazioni legate alla quotidianità.

Il problema è in buona parte politico. Senza una divisione dei compiti reale e senza politiche pubbliche a sostegno delle mamme, la maternità diventa quasi impossibile o di fatto impossibile (come mostra la bassa natalità nel nostro Paese).

Inoltre, esistono complicazioni sociali, frutto di una visione della maternità come progetto puramente individuale e femminile. Le mamme di oggi si sentono in colpa se non portano i figli alle migliaia di lezioni che promettono di farli diventare Mozart o Pelé. Alcune delle mie amiche-mamme newyorkesi spendono una media di 1000 dollari al mese in classi di musica, yoga, calcio e nuoto per i figli di due anni. E dilapidano piccole fortune (oltre 20,000 l’anno) per mandare i figli a un asilo esclusivo, invece che a quello sotto casa. Purtroppo, aumentando scelta, aumentano anche il senso di responsabilità e di colpa per non riuscire a fare, dare (o peggio comprare) tutto. E anche se alcuni dei nostri compagni condividono alcune di queste frustrazioni, raramente vivono con la stessa intensità i nostri sensi di colpa.

Per questo, le donne con figli sono esauste, frustrate e si sentono un po’ più sole di quelle senza figli, insomma sono infelici. Eppure non sono i figli in sé a renderci infelici, ma la percezione (e la pratica) della maternità nella società contemporanea come una scelta puramente personale e principalmente femminile.

Almeno in questo, maternità e felicità coincidono, essendo viste come condizioni individuali e soggettive, di cui si ignora la componente sociale e politica, che invece è più che evidente. Infondo, le persone felici sono anche più sane, più produttive e più fertili e la fertilità è la base della sopravvivenza di una società. Non per nulla sempre più paesi riconoscono il valore della felicità dei propri cittadini come un bene da coltivare, inclusi gli Stati Uniti, che stanno considerando introdurre il Gross National Happiness Index nelle proprie statistiche nazionali. Non per nulla, nella dichiarazione d’indipendenza americana, la “ricerca della felicità” è menzionata come un diritto inalienabile dell’uomo, alla pari con il diritto alla vita e alla libertà.

Come riuscire allora a vivere la maternità in modo diverso e magari addirittura felice?

Così come il problema, anche le soluzioni sono in parte di natura politica, in parte sociale. Per le donne, la ricerca della felicità è impossibile senza le pari opportunità.

Laddove esistono politiche che favoriscono una divisione più equa dei compiti nella coppia, per esempio la licenza di paternità obbligatoria, come in Svezia, ci sono tassi di felicità e, non a caso, di natalità, superiori a quelli del nostro Paese.

Laddove ci sono strutture pubbliche di qualità per l’attenzione ai bambini, come in Francia, le donne si sentono meno in colpa a tornare a lavorare dopo la maternità e non solo sono più felici e produttive, ma fanno più figli.

Da un punto di vista sociale, poi, è necessario ripensare la dialettica sul ruolo dei genitori (e soprattutto delle mamme). Anche se ad alcune piace crederlo, non siamo le uniche (o forse neanche le principali) variabili che porteranno i nostri figli a diventare (o a non diventare) individui produttivi, socialmente integrati e felici. I figli non sono la nostra tabula rasa (vedi Pinker) o il canovaccio su cui dipingeremo il nostro capolavoro, né devono diventare la definizione del nostro successo. Una volta accettato questo, credo che più donne capirebbero che invece di preoccuparsi delle lezioni di nuoto a 6 mesi (che si possono fare gratis nella vasca da bagno), varrebbe la pena preoccuparsi delle politiche per l’infanzia (o della mancanza delle stesse) nei programmi dei partiti politici.

Insomma, se vogliamo che la maternità sia un’opzione ragionevole per le donne bisogna ripensarne le condizioni. Alcuni cambiamenti sono possibili (e necessari) da subito, altri prenderanno tempo, ma bisogna continuare a insistere per la loro realizzazione, con tenacia e pazienza.

Quanto a me, la maternità mi ha portato molta felicità e occhiaie permanenti, mi ha implicato infiniti compromessi e mi ha insegnato molte lezioni. La principale è che, come ripeteva sempre la mia tata “ci vuole tanta pazienza”. Tata, quanto avevi ragione.

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