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Haiti dies irae. Per non dimenticare, a due anni dal terremoto

"Giorno d'ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e d'allarme sulle fortezze e sulle torri d'angolo" - (Vulgata dal libro di Sofonia 1,15-16)

Parigi: l'ultima è una settimana di mal tempo, tante le attività culturali che propone la capitale. Decido, quindi, nel pomeriggio di ieri di visitare la Maison Européenne de la Photographie, spinta da una passione nascente verso il mondo della fotografia, che la stessa città mi ha trasmesso.

Il mercoledì pomeriggio l'entrata al museo è libera. Ci sono quattro esposizioni in programma: quella che attira maggiormente la mia attenzione è quella di Paolo Pellegrin, "Dies Irae" (titolo latino che significa “I giorni della rabbia”, si riferisce ad un poema che veniva cantato durante il requiem e che allude al giorno del Giudizio Finale e della collera del Signore), in mostra dal 4 aprile al 17 giugno .

Si tratta di una grande retrospettiva dedicata all’opera di Pellegrin presentata già nel 2011 a Milano, alla Fondazione Forma. Circa 200 scatti rubati alla Cambogia (1998), al Kosovo (1999-2001), all'Irak (2003), al Darfour (2004), alla Palestina/Cisgiordania (2002-2004), all’uragano Katrina (2005), allo Tsunami (2005), a Gaza (2005), ad Haïti (1995-2010), all'Afghanistan e al Libano (2006) e all'Iran (2009).

Paolo Pellegrin è un fotogiornalista italiano che racconta con un tocco puro ciò che vede dal vivo. Quelle alle pareti erano immagini che mi hanno trasmesso sicuramente una tristezza immane (visti i soggetti drammatici), benché non si trattasse di quelle tipiche foto di fotografi che ci marciano, sopra la sofferenza altrui. In bianco e nero, semplici scene, momenti presi singolarmente nella loro drammaticità, hanno rapito la mia attenzione che si soffermava di volta in volta su qualche particolare: una mano, un volto, un corpo di una donna con un mantello nero che, presa di spalle, guardava un suo connazionale morto, trascinato dai compagni per terra. Ma per quanto mi piacerebbe parlare di fotografia, non è questo il nocciolo della questione che voglio affrontare.

Tra le fotografie di Pellegrin, alcune ricordavano il terremoto di Haiti del 2010.

A guardarle mi son chiesta: "Ma Haiti che fine ha fatto?".

Il terremoto di magnitudo 7.0 del 2010 provocò circa 230.000 morti e 1.000.000 di senza tetto. Oggi ho voluto cercare qualche informazione sull’isola caraibica a distanza di 2 anni da quella vicenda e mi sono imbattuta in alcuni articoli che in parte confermavano le mie sensazioni di ieri. Città dimenticata? Forse sì.

"Il Fatto quotidiano", quasi per combinazione, ha dedicato, qualche giorno fa, un articolo al caso: la situazione descritta è davvero deprimente. Al di là di un cancello che separa la Repubblica Dominicana da Haiti, il benvenuto viene dato da una carrellata di immondizia, di acqua sporca, di animali in putrefazione, uomini che pescano per strada, bambini che commerciano carte telefoniche in cambio di mazzette illegali. Haiti oggi ha “un milione e mezzo di sfollati, alcuni dei quali nei 660 campi profughi”, con il colera alle spalle, subito all'attacco, vista la situazione igienico-sanitaria per nulla favorevole, visti i cadaveri, probabilmenti ancora presenti dietro un angolo.

La realtà di oggi, dopo un flusso di migliaia di cameramen e aiuti umanitari arrivati nel 2010, è ben diversa da quei giorni affollati. I pochi volontari rimasti hanno doppia fatica. Medici senza frontiere ha aperto pochi giorni fa (la notizia è dell’11 aprile) un centro di riferimento per traumatologia d’urgenza e chirurgia ortopedica e viscerale nella capitale di Haiti, apportando sicuramente un notevole aiuto, ma con la consapevolezza che è il minimo che la città dovrebbe ricevere. Nell’articolo viene riportata la testimonianza Francesca Di Cosmo, ostetrica e infermiera, un’italiana che lavora lì nel reparto neonatologia e che incontra molte difficoltà, quotidianamente, a causa di risorse scarsissime e mentalità locali complesse. “Il 70% della popolazione è disoccupata, il 53% ha meno di 16 anni e un bambino su 3 muore prima dei 5 anni”, questi i dati riportati nel testo. Morti che non hanno neanche il diritto ad una tomba. Vengono spesi 850 milioni di dollari per la militarizzazione dell’isola, ma forse servirebbero più aiuti umanitari, più solidarietà, scuole, dottori, insomma, più attenzione. La vita è invivibile: alle 18 scatta già il coprifuoco, c’è la mafia, la città si trova lungo la via di traffico di stupefacenti che parte dalla Colombia, poi ci sono le credenze sulla magia nera, e così via dicendo.

Un’altra testimonianza sullo stato in cui imperversa Haiti, ripresa dal Corriere dell’Irpinia, è quella di Tiberio Cappuccio, cittadino teorese molto legato alla terra haitiana perché nato proprio lì. Lì dove Teora ha inviato i suoi aiuti per ricambiare quelli ricevuti dalla stessa Haiti 30 anni prima. Tiberio si mostra deluso e arrabbiato e si chiede dove siano finiti questi fondi, dal momento che oggi l'isola si trova ancora in questa situazione di disagio abissale. Per non parlare dei soldi "trattenuti" da Jack Warner, vice presidente della Fifa e destinati ai terremotati, di cui ha parlato The Guardian ultimamente.

Certo esistono ancora gruppi e fondazioni che aiutano questa popolazione, ho letto di interventi per i bambini, di azioni della caritas ambrosiana. Nonostante le tensioni nate intorno alla Presidenza di Michel Martelly e al suo passato da musicista statunitense, poi, Haiti sembra comunque aver trovato un “governo” stabile e con dei progetti. Insieme con Gary Conille, da ottobre in carica come Primo Ministro, si sono attivati per ricostruire la città. E' stata annunciata, ad esempio, la costruzione del Parque Industrial Caracol nella zona settentrionale di Haiti che porterebbe alla nascita di almeno 20 mila posti di lavoro. L'isola attira anche l’interesse di varie multinazionali, come Air Canada e Marriott Hotels & Resorts, ma nonostante questi aspetti mediamente positivi, bisogna dire che soltanto il 40% dei fondi è giunto a destinazione, mentre servirebbero ancora 24 milioni di dollari nel 2012 per i bisogni più immediati, a detta del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF).

Dalla foto che Pellegrin ci mostra (in alto nell'articolo), vediamo un uomo haitiano sul tetto di una casa distrutta dal terremoto. È all'opera per la "ricostruzione": nell'immagine è solo, sullo sfondo ci sono unicamente delle macerie, il silenzio intorno. E oggi? Quegli uomini devono rimanere soli? ...

Per non dimenticare Haiti.

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