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Gli indicatori del merito politico

Giacciono indelebili, nella nostra memoria scolare, gli elenchi, in gesso sulla lavagna, che segnavano da una parte i bravi e, dall’altra, i cattivi. Metodo manicheo attributivo della condotta: così ciascuno poteva conoscere la propria collocazione disciplinare. Ancora oggi, da adulti, l’esposizione alla “pubblica ignominia” per talune categorie civiche si conferma metodo discriminatorio disciplinare. Se è nota la difficoltà nel dimostrare valore e merito individuali, il rigoroso dato aritmetico delle presenze (o delle assenze) lavorative permane provvidenziale e prezioso indicatore. Ne più ne meno del criterio tabellare di Brunettiana memoria, espresso per gli “assenteisti” della PA, dal quale sono calati, come affilata scure, generici giudizi di merito su l’intera sotto-categoria impiegatizia.

Ora è arrivato il momento, tanto atteso, delle valutazioni sui politici locali: e, per poter esprimere valutazioni oggettive, tale indicatore viene ri-assunto come strumento implacabile. Leggo in un recente editoriale che gli “assenteisti” (i “cattivi” dell’epoca scolastica) in parola, colti in fallo, osano addurre giustificazioni: ciò producendo una possibile destabilizzazione nella pubblica opinione sul “chi avrà ragione?”. Povera, frastornata pubblica opinione: in essa non può che regnare, comprensibilmente, profonda incertezza, ed amarezza. C’è infatti sempre un motivo, una giustificazione per dimostrare la bontà di un comportamento difettoso, di un’azione scorretta. Lo possiamo udire in qualunque confronto: ogni contendente ha ragione da vendere.

Se riprendiamo, in specie, l’argomento delle troppe assenze rilevate nelle sedute di un generico consiglio comunale, occorre stabilire un punto nevralgico di partenza: il numero di incarichi che, in via generale, oltre il proprio ordinario lavoro, il singolo tende a concentrare su di sé: una vera e propria “accumulazione di rappresentatività”. E poiché il dono della bilocazione discende direttamente dal divino (assente ogni blasfemia), l’aspetto vero è: se già è difficoltoso assolvere bene ad un’unica funzione, pensiamone l’esito in caso di due (od anche più).

Attribuendo ai nostri rappresentanti politici (anche locali), in quanto eletti dal popolo, indubbi capacità divinatorie, nondimeno la concentrazione parossistica di incarichi dovrebbe essere una velleità da ridimensionare, pur legittimata da un approccio sistemico a ciò orientato, come l’attuale. La questione, da rivolgere all’opinione pubblica, ma soprattutto al singolo interessato, é: può una persona, già impegnata in un incarico politico, addizionale al lavoro principale, assolverne, con efficacia, ulteriori?

Poiché non voglio andare fuori-tema (a scuola costava caro in termini di “voto”), la soluzione possibile consiste nel comprendere definitivamente l’inopportunità, a fini pubblici, di concentrare ed accumulare incarichi ( é tema di recente trattazione di natura etica oltreché giuridico-normativa). In caso di scelta obbligata per uno e solo uno, l’irrefrenabile tensione civica del politico, che lo porta giocoforza a sacrificarsi nel concentrare su di sé molteplici “responsabilità”, cederebbe alle lusinghe di un incarico solitario, ad eventuale discapito dell'accumulo di corrispettivi e/o di rappresentatività?

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