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Giuditta Levato. A 94 anni dalla sua nascita

 "L’assassinio di Giuditta Levato" del pittore Mike Arruzza

 


Un giorno di tardo mattino Giuditta Levato, già incinta di sette mesi, si recò alle terre che lei e i suoi compaesani avevano coltivato. La Commissione provinciale per le terre incolte glielo aveva permesso. Il decreto dell’allora ministro dell’Agricoltura, Fausto Gullo, voleva abbattere una volta per tutte il latifondo e stabilire l’eguaglianza e il diritto alla terra a tutti i cittadini. Quella mattina, era il 28 novembre 1946, anche l’agrario Pietro Mazza volle esprimere la sua opinione in materia. E decise di dare una lezione a quelli che considerava i suoi "usurpatori". Per mano di un suo servo partì un colpo. Giuditta Levato cadde a terra. Venne trasportata sanguinante fino a casa. E poi in ospedale. In punto di morte dichiarò: “Io sono morta per loro, sono morta per tutti. Ho dato tutto alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa, la mia giovinezza; ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che io sono partita per un lungo viaggio ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio padre, a mia madre, ai miei fratelli, alle mie sorelle, dirai che non voglio che mi piangano, voglio che combattano, combattano con me, più di me per vendicarmi”. Si rivolgeva al senatore Pasquale Poerio. Questi nei giorni successivi visitò Calabricata di Albi (questa località venne annessa al neo costituito Comune di Sellia Marinasolo nel 1956) e pronunciò un discorso memorabile (che poi riportiamo in seguito ndr). 

Sono passati 94 anni dalla nascita di Giuditta Levato. Nacque il 18 agosto 1915. A 58 anni dalla sua morte l’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea legislativa regionale, nel dicembre 2004, decise di intitolare l’ex sala consiliare dell’organo regionale a Giuditta Levato. Il presidente Luigi Fedele motivò: “In omaggio ad una donna che è stata protagonista del suo tempo ma soprattutto in omaggio a tutte le donne calabresi abituate a lavorare sodo e spesso in silenzio. In omaggio a tutte le donne che, pur non avendo molta visibilità perché occupate nel loro lavoro quotidiano, sono uno dei pilastri fondamentali della nostra società e che, al momento giusto, com’è accaduto appunto alla contadina di Calabricata, sanno sfoderare grinta e determinazione e diventare protagoniste del loro destino”. Qualche mese prima venne costituita la prima associazione a lei dedicata, proprio nel comune di Sellia Marina, per volontà di un napoletano, Piero Granata. Nell’agosto dello stesso anno durante la festa dell’Unità venne organizzata la prima manifestazione in suo onore. L’interrogativo dell’incontro fu: “Quello dei movimenti di occupazione fu una occasione mancata per il Meridione?” “Ospiti illustri del calibro di Enzo CiconteGiovanni LamannaPino Bonessi e Quirino Ledda – ricorda Granata - colsero correttamente il taglio ed il respiro della provocazione che poneva da un lato l’importanza di una sollevazione popolare che taluni hanno definito “la resistenza del sud” e dall’altro i risultati – assai insoddisfacenti - che essa produsse (a differenza della Resistenza vera e propria)”. Ad ogni modo, anche se il suo sacrificio non produsse quei frutti sperati, dopo quasi sessant’anni dalla sua morte qualcuno ebbe il merito, timido e a tratti rabbioso, di ricordarlo e di urlarlo il suo nome e la sua immolazione. Tanto che di lì a poco anche il sovrano consiglio comunale si accorse di lei. 

L’anno scorso l’Amministrazione di Sellia Marina promise che la stele in sua perenne memoria sarebbe stata traslata in un ambiente più degno e soprattutto più riconoscibile per la cittadinanza. Nella piazza principale del paese. Ad oggi, però, la veneriamo ancora nell’anonima via Frischia .


La stele che ricorda Giuditta Levato a Sellia Marina

Pubblichiamo il comizio fatto dal senatore Pasquale Poerio a Calabricata qualche giorno dopo l’assassinio di Giuditta Levato, l’8 dicembre 1946.


Forse o lavoratori, non avrei capito nella sua interezza il sacrificio di Giuditta Levato se non fossi venuto qui, a Calabricata. L’esser venuto qui, l’aver veduto le vostre case basse e affumicate, il vostro villaggio senza strade, i vostri bimbi senza niente sulla carne che li possa riparare dall’inverno, le vostre donne, i vostri uomini coperti solo di cenci, con su le facce i segni del lavoro e della fame, spettacolo terribile di miseria, mi ha fatto capire appieno il sacrificio della vostra compaesana che non appartiene più solo a voi, ma ai contadini di tutta la Calabria, a tutti i lavoratori della terra d’Italia.

Lei, da quel mattino in cui esalava l’anima nello Ospedale civile di Catanzaro, apparteneva a tutto il movimento di redenzione della massa contadina della nostra provincia che, iniziatosi il 17 ottobre del 1944 nella zona dell’alto e medio Crotonese, doveva diventare il 17 settembre del 1946, un grande movimento al quale partecipavano 96 comuni con cinquantamila contadini. La prima vittima della nostra provincia, che doveva cadere sotto al piombo degli agrari, è nata qui in Calabricata, villaggio disperso nel basso Crotonese covo di duchi principi e baroni. E così accanto ad Argentina Altobelli, la figlia dei borghesi emiliani, combattente senza tregua per la causa della redenzione dei lavoratori della terra, siederà da oggi in poi Giuditta Levato, l’umile contadina calabrese che tutto sacrificò per la redenzione dei suoi fratelli, se stessa, la propria giovinezza, la propria famiglia. Di lei, della sua vita semplice poche cose si possono dire. Accade sempre così, quando si deve parlare dei martiri: modesti fuochi, che poi, inaspettatamente divampano, travolgendo se stessi ed altri e lasciandosi dietro una scia luminosa che segna il cammino da seguire.

Nata il 18 agosto 1915 a Calabricata di Albi da Salvatore Levato, lavoratore della terra, e da Rosa Romania, ottima madre e contadina, passò i suoi anni tra la casa e la terra ad aiutare il padre ed i fratelli nel lavoro dei campi: lavoro spesso ingrato, ma sempre onesto e buono che se abbrutisce la carne, tempra con la sua durezza l’animo. Nella sua giovinezza vi sono molti episodi di bontà. Sempre premurosa con i fratelli, si può dire la seconda mamma di famiglia, giacché tutto a lei confidavano amore e dolore, gioie e disinganni. Sposò a ventun anni un giovane contadino, Scumaci Pietro che la lasciò madre quando nel 1941 venne chiamato alle armi. Venne chiamato ad offrire i più begli anni della propria giovinezza, non per la patria grande e immortale, non per i propri figli, ma per difendere gli interessi e la libidine di potere di quegli stessi agrari per mano dei quali doveva cadere più tardi uccisa la giovane sposa.
Negli anni della guerra Giuditta continuò nei campi e nella casa, accanto al buon padre l’opera del marito. Seminò, coltivò la terra, raccolse il grano, diede il pane ai figli, fece in modo che i bambini non sentissero la mancanza del genitore lontano. Passata la tragedia della guerra, si ricomponeva e si ridava vita a quella felicità che era nata tra il lavoro dei campi, l’affetto della sposa e il dono dei figli. Passarono i mesi…
Un giorno, un giovane che si disse Comunista, venne nel disperso villaggio e parlò un linguaggio nuovo: li chiamò compagni e fratelli di lotta per la redenzione del proletariato. Questo parlare nuovo, semplice, veramente cristiano e fraterno, convinse Giuditta ad entrare nel grande Partito, di cui intuì l’idea e la missione. Per il suo lavoro appassionato, nacque la Sezione prima, la Cooperativa e la Lega dopo. Si dice che parlasse in maniera buona, in maniera semplice con linguaggio solito ai contadini di questa grande idea che si chiama Comunismo, che libera gli uomini dal bisogno, che libera gli uomini dalle guerre, che li fa diventare più buoni, più onesti, più umani. Lei, la sposa e la sorella di contadini combattenti, la madre dei bimbi mal vestiti, aveva nobilmente intuito e voleva che i lavoratori del suo paese, avessero insieme agli uomini di tutta l’umanità, la libertà dal bisogno e la fine delle guerre.

Pensava finalmente, di poter dare tutta la terra che circonda le case basse ed affumicate dalla sua piccola Calabricata, la terra che si stende immensa e che è il dominio di pochi padroni, a tutti i lavoratori del villaggio. Forse per un sogno che le era parso sin da bambina: sin da quando seguendo il padre nei campi lo sentiva lamentare per la scarsezza della terra da coltivare e per la esosità dei padroni. Forse sin d’allora la bella Giuditta aveva pensato di poter un giorno dividere tutta quella terra ai contadini poveri del suo paesello, e fare di quella sterile vallata un immenso giardino. E il giorno sognato venne: 17 settembre 1946.

Fu festa per tutti: le campane della chiesetta del villaggio incominciarono a suonare dalle prime ore del mattino, per chiamare i contadini a raccolta. Di lontano giungeva l’eco delle altre campane dei paesi vicini. E gente, gente per le campagne vicine con bandiere rosse, con bandiere tricolore. Fu festa per lei, per la bella Giuditta che era in testa a tutti e cantava: Avanti o popolo a la riscossa … Cantavano e piangevano tutti per la commozione. Le campane suonavano a stormo per tutta la vallata. Ma troppo grande era la vittoria, troppo la contentezza, troppo Giuditta aveva fatto perché gli agrari la potessero lasciare impunita.
Venne il 28 novembre e il grosso massaio Pietro Mazza, volle sfidare con la complicità di un ignobile servo, la buona volontà dei contadini di Calabricata. Nel tardo mattino si recava nel suo fondo, richiesto e contestato dalla lega, per seminarlo. Ne fu avvertita Giuditta che chiamò tutte le donne a raccolta, tutte le mamme contadine, tutte le spose dei combattenti: e andarono sul luogo per impedire al ricco massaio di seminare la terra contesa. L’offesa era grave per il massaio che vilmente con l’aiuto di un servo sparò sulla Giuditta la temibile avversaria che dava forza e coraggio ai contadini, a voi o compagni di Calabricata perché vi svincolasse dalla servitù. E la giovane sposa, che sarebbe stata per la terza volta mamma fra pochi mesi fu ferita al ventre. Ma non si abbatté, sedette per terra, si vide la ferita, e alle altre mamme, alle altre spose ordinò che acciuffassero i vigliacchi, perché la lotta non era finita. Si, la lotta, o Giuditta, non è finita; anzi non è neppure incominciata, come tu giustamente mi dicevi sul letto di morte nell’Ospedale di Catanzaro.

Ricordo, ricordo le tue parole: “Compagno, dillo, dillo a tutti i capi, e agli altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti. Ho tutto dato io alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa, la mia giovinezza; ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che io sono partita per un lungo viaggio ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio padre, a mia madre, ai miei fratelli, alle mie sorelle, dirai che non voglio che mi piangano, voglio che combattano, combattano con me, più di me per vendicarmi. A mio marito dirai che l’ho amato, e perciò muoio perché volevo un libero cittadino e non un reduce umiliato e offeso da quegli stessi agrari per cui ha tanto combattuto e sofferto. Ma tu, o compagno vai al mio paesello e ai miei contadini, ai compagni, dì che tornerò al villaggio nel giorno in cui suoneranno le campane a stormo in tutta la vallata”. Ed io, o lavoratori di Calabricata, sono venuto. Ho mantenuto la promessa e sono con voi.

Ho veduto le vostre case basse, affumicate e piene di miseria. Ho veduto i vostri bimbi scalzi e pieni di fame. Ho capito perché Giuditta Levato si è sacrificata. Ho veduto le vostre pagliaie, questo cumulo di catapecchie senza un cimitero e senza una fontana ed ho veramente compreso le ultime lacrime di Giuditta Levato, sul letto di morte. Ma la vendicheremo! E quando, nuovamente suoneranno a stormo le campane, per dire che l’ora della riscossa finalmente è venuta, questo piccolo borgo senza strade, diventerà il centro ideale di tutti i lavoratori d’Italia
”.

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