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Gigi Riva | Rombodituono, come te nessuno mai

Resta sospeso in aria con quel sinistro che esplode sulla palla a gonfiare una rete neanche mirata, solo fiutata. Lui sapeva dove far schioccare il dardo anche quando volava senza guardare. Etereo ed eterno come un dio.

 La rovesciata alla Riva era l’inarrivabile per i calciatori in erba che l’erba la incontravano al più su un pratone metropolitano, dove pascolavano anche le pecore. Finivano i Sessanta e Riva era un gigante per le giovani gambe allampanate e sbucciate sui campetti di pozzolana. Prima di quel baleno, la rovesciata-spettacolo la riportava l’album Panini. Era d’un difensore, Carlo Parola. Squadrone blasonato e gesto immortalato, poi ripetuto quasi da copione a favore d’un pubblico plaudente. Azzardo temerario, certo, ma spesso confezionato, utile a spazzar via l’area, a liberarsi dagli attaccanti predatori. Ci perdoni la buonanima del capitano juventino, era una mossa atletica eppure appariva posticcia. Saperla fare era altra cosa. Niente da eccepire. Tu alzavi il pallone e nel saltare all’indietro magari lo mancavi. Figura barbina, accidenti dei compagni, risa avversarie. Occorreva ripetere, ripetere, ripetere per un’esecuzione passabile. Ma a quel punto quello non era più calcio. O almeno il calcio inteso all’epoca, tutto improvvisazione, mica recita a soggetto. A qualche sparuto schema di mister visionario, si opponeva e caparbiamente si praticava la folgorazione della fantasia. La rovesciata di Vicenza appartiene a quest’idea del pallone: creatività, funambolismo, rischio gioioso. Dunque: cross dal fondo, appoggio di testa e volo del più diabolico fra gli angeli delle aree di rigore, il breriano Rombodituono, unico nell’agguantare la palma dell’arte pura. La sua rovesciata non era Parola, aveva la forza del Verbo. Perentorio, schioccante, inimitabile. Un’esplosiva ascesa in cielo che deflagrava in un colpo devastante, inatteso per chi guardava ancor più per chi provava a fermarlo. E nessuno poteva né studiarlo né ripeterlo, forse neppure lui che perciò inventava capolavori acrobatici sempre diversi. Questo era il cagliaritano Luigi Riva detto Gigi da Leggiuno, paese cercato inutilmente sugli atlanti. Giocatore spettacolare, fantasioso, misterioso. Così in un pomeriggio assolato quei micro calciatori da periferia urbana frenavano la fregola del dribbling e discutevano sul perché il campione preferisse l’isola e la Barbagia, in barba ai milioni della Juve più degli Agnelli che di Parola. Chissà. Forse l’amore per la squadra, il piacere del posto e del mare, il senso morale dell’uomo. Seppero dopo ch’era così. In quel momento pensavano che Gigi dov’era poteva librarsi in aria come voleva, come poteva e come la sua potenza dispensava. Giocava in serie A come loro giocavano su un campetto sgarrupato. Era questa la differenza. Lui era un campione libero.

Enrico Campofreda

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