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Gaza, dietro il massacro

Dietro il massacro che vede in un solo giorno assassinare uno per uno sessanta palestinesi fra i quattordici e i quarant’anni ci sono la cronaca e la storia. E una ciclopica ingiustizia che non tramonta. 

L’attualità parla delle provocazioni d’un provocatore che l’America oscurantista ha eletto come presidente: un danno per il mondo, non l’unico, ma consistente. In sinergia con un altro politico, Netanyahu, che ha fatto delle storture del proprio Paese l’arma per esaltare l’ostruzionismo d’ogni ragione e l’esasperazione d’un egocentrismo fobico, viene rilanciata l’ennesima umiliazione alla comunità palestinese da settant’anni straniera e schiava in patria. Ha voglia il popolo ebraico a ricordare le proprie schiavitù e diaspore millenarie, che ovviamente sono esistite, ma non sono correlate al presente. Quello recentissimo di giorni vede i festeggiamenti dei settant’anni della nascita della nazione israeliana a danno di una palestinese. Scippata nel 1948, occupata anche nelle ultime enclavi com’era appunto Gerusalemme fino al giugno 1967, raggirata nel 1992 con e dopo gli accordi di Oslo. Cos’hanno visto gli occhi di Ezz el-din Musa Mohamed Alsamaak dischiusi nell’anno della misteriosa dipartita di Arafat e criminalmente serrati ieri dal proiettile d’un cecchino?

Hanno visto Gaza, il luogo in cui è brevemente vissuto, sottoposta a molteplici operazioni militari, dai nomi fantasiosi e dagli effetti in troppi casi efferati, soprattutto ‘Piombo fuso’ e ‘Margine di protezione’ che hanno prodotto rispettivamente 1350 e 2310 vittime, al 70% civili. In quei due momenti il più giovane dei morti di ieri aveva quattro e dieci anni, probabilmente non tirava neppure pietre. Però poteva osservare la morte, sentirne l’angoscia, ascoltare racconti e lamenti. Questo è accaduto a lui e a centinaia di migliaia di coetanei che vivono in quei quarantadue chilometri serrati su se stessi, privati anche di generi di necessità e periodicamente sottoposti a quelle che Israel Defence Forces definisce azioni difensive. La più anziana vittima di ieri Mahmoud Abdulmoti Abdal, che di anni ne aveva 39, di Gaza ha conosciuto ulteriori pene: l’occupazione di terra da parte di Tsahal terminata quando lui aveva più o meno l’età di Ezz el-din Musa, e proseguita non solo con le guerre lampo che ricordavamo ma col controllo di aria e acqua, cioè spazio aereo e marino, e anche dell’acqua potabile razionata e mancante per la perfida distruzione di tubature e fogne durante le frequenti incursioni aeree. Nella quotidianità di Gaza i due Mohamed hanno conosciuto mancanze di viveri e divieti non solo d’uscita, ma d’accesso per stranieri. Tutto sottoposto al volere di Israele.

C’era e c’è un motivo per stare fra polvere, fumi e gas a farsi sparare. E non è il desiderio di martirio. Ciò che non vogliono vedere né riferire molti commentatori che indirettamente fanno il verso agli untori del massacro. Quelle personalità riunite a celebrare la nuova sede di un’ambasciata riconosciuta, guarda caso, da due Paesi che intraprendono la via xenofoba e razzista, Ungheria e Repubblica Ceca, con l’aggiunta delle attuali premiership di Austria e Romania. Il motivo è coercizione alla quale è sottoposta quella gente. I politologi s’impegnano a evidenziare le contraddizioni e le forzature imposte ai gazawi dall’amministrazione di Hamas, problematiche esistenti, in certi casi frutto di contrasti interni con la componente dell’Autorità palestinese che non brilla per trasparenza e correttezza. Eppure agli occhi di chi va a morire per Gaza e per il diritto al ritorno dei milioni di profughi palestinesi, costretti da decenni all’esilio forzato, non esiste imposizione. La scelta di essere su quel confine, rappresenta una scelta di vita. Il richiamo di chi non ha altri strumenti per continuare a proporre una questione che si vuol aggirare oppure soffocare col sangue. E che invece continua a vivere, nonostante i mortiferi festeggiamenti israeliani.

Enrico Campofreda, 15 maggio 2018

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

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