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Francesco Ciusa ed Eugenio Tavolara, artisti dell’identità sarda

Non so bene come definire i tempi in cui viviamo. Mi pare però riduttivo definirli semplicemente tempi ‘di crisi’. Nel concreto, innanzitutto, penso che questo modo di dare una dimensione al disorientamento generale cui siamo sottoposti nel momento storico che ci vede presenti, sia manchevole sotto più profili; in particolare sembra non essere in grado di cogliere per intero la complessità e la profonda e preoccupante negatività di ciò che quotidianamente si verifica intorno a noi.

L’uomo dei nostri giorni, verrebbe da pensare, ha vinto la partita con il mito, tanto è diventato consapevole di se stesso e poi, con il passare dei secoli, sempre più spavaldo e spietato e meno incline alla comunanza e al rispetto che coinvolgono il prossimo in maniera disinteressata e a quel sentimento di solidarietà, amore e cura per l’uomo e per i molteplici aspetti che lo caratterizzano, che i romani dell’età repubblicana, ampliando il concetto di ‘pietas’ (‘nam meo iudicio pietas fundamentum est omnium virtutum’ sosteneva Cicerone) riassumevano con l’idea di ‘humanitas’.

Tale tendenza, assai diffusa ai nostri giorni, è riscontrabile molto facilmente nei rapporti e nelle relazioni intessute da ciascuno di noi in ogni momento nel lavoro, nella scuola e nel sociale in genere. Allo stesso modo l’uomo sembra aver dato scacco a quel sentimento spontaneo e immediato di stupore e di palpitante emozione di fronte alle cose nuove che aveva caratterizzato quell’insaziabile spirito di conoscenza che gli antichi greci chiamavano ‘paideia’ – formazione – ma intesa, questa, come processo di insegnamento volto alla acquisizione di una cultura che deve far parte in senso qualitativo di ogni percorso umano e di più intima realizzazione dell’uomo dotato di ‘humanitas’.

Di fronte all’affievolirsi del sentimento umanistico, dell’abnorme incrementarsi della società dei costumi, Pasolini prese posizione parlando addirittura di avvenuta mutazione antropologica all’interno della società italiana. Oggi viene rivalutata questa intuizione del poeta delle borgate romane. Non vi è più alcun dubbio a proposito del fatto che la società dei consumi ha radicalmente trasformato, certo non in meglio, il modo di vivere e di essere dell’uomo moderno.

Dal digradare spietato del sentimento umanistico all’affievolirsi dell’interesse per tutto ciò che è oggetto delle attività dell’uomo, in primo luogo per l’arte, il passo è breve. L’arte, che figura tra le più significative e le più dense di significato profondo prerogative ed abilità maturate da quello strano animale che è stato capace di inventare un linguaggio simbolico articolato per comunicare con i suoi simili e, conseguentemente, di utilizzarlo in modo esclusivo per fondare, modificare e trasmettere la propria cultura, appare, in tempi di grande frenesia dovuta alla mancanza di tempo, di feroce speculazione finanziaria e di insensibilità quasi istintiva nei confronti di qualsiasi cosa che non sia produzione, progettualità, denaro, sempre più trascurata.

Essa andrebbe invece coltivata e maggiormente diffusa perché è espressione diretta della nostra personalità e in quanto rivelatrice di ciò che siamo nell’intimo e all’interno della società umana.

L’arte come sentimento del bello, spiega Giovanni Chimirri, ‘appartiene al rilassamento, al diletto e alla ricreazione dello spirito, del cui affaticamento altri interessi hanno bisogno, come ad esempio le dure lotte per la sopravvivenza, il lavoro, i problemi famigliari, la morale, il progresso scientifico e tecnologico ecc. Davanti al bello artistico, ci assale un piacere ed una gioia inesprimibili, un senso di agio e pienezza, uno slancio intuitivo che fa vibrare tutto il nostro essere’.

Sono concetti semplici che hanno però il merito di fornire l’esatta misura di ciò che l’uomo sarebbe se fosse privato della possibilità di conoscere e di essere consapevole di sé che gli derivano dal proprio desiderio di sapere e dalla insopprimibile esigenza di crescita intellettuale, quindi anche dalla fruizione dell’arte in ogni sua manifestazione. 

Oltre al disinteresse che in maniera più o meno intensa si manifesta a livello di singolo individuo vi è quello, ben più grave e carico di conseguenze disastrose, che proviene dalle istituzioni pubbliche (dallo Stato, in primis) che invece avrebbero il dovere di incrementare la cultura e di incentivare la fruizione delle arti. L’ammontare delle risorse pubbliche destinate, di anno in anno, alla cultura, è, nei fatti, sempre decrescente in termini percentuali e comunque, se riferito a un Paese come il nostro, culturalmente ricchissimo e dotato di potenzialità e di inclinazioni fortissime per tutto ciò che è arte e sapere, sempre largamente insufficiente.

In tempi di magra come quelli in cui ci muoviamo occorre approfittare di ciò che ci viene offerto, soprattutto quando gli eventi culturali e artistici a cui abbiamo la possibilità di assistere rivestono caratteri di particolare rilevanza per il territorio in cui si vive per il gran pregio artistico di cui possono fregiarsi e in virtù del messaggio che gli eventi stessi, a più livelli, sono in grado di veicolare.

A Nuoro la Regione Sarda e il Comune hanno reso possibili, presso il Museo Ciusa, realtà espositiva di recente istituzione, due esposizioni irrinunciabili per tutti coloro che amano l’arte, la Sardegna e la città che le ospita.

Si tratta della mostra (permanente) dedicata allo scultore nuorese Francesco Ciusa e di quella che celebra, a 110 anni alla nascita dell’artista, l’opera di Eugenio Tavolara (Eugenio Tavolara – Il mondo magico, questo l’eloquente titolo della mostra che può essere visitata fino al 30 Aprile p.v.).  

Francesco Ciusa (1883-1949) è l’artista che per primo in Sardegna ha dato dignità alla scultura moderna e che contemporaneamente, e assai mirabilmente, ha espresso l’anima della cultura sarda nelle sue rappresentazioni scultoree e nelle sue ceramiche. Uomo proveniente dall’Accademia (studiò belle arti a Firenze), operò a Nuoro, a Sassari, e in seguito, principalmente, a Cagliari, città presso la quale si trasferì intorno agli anni 1908-1909. Legato da amicizia ad alcuni dei più significativi nomi della cultura sarda (il poeta nuorese Sebastiano Satta e inoltre, conosciuti, questi, a Sassari, il poeta Salvatore Ruju, il pittore Giuseppe Biasi e il poeta Giannetto Masala). Dello scultore barbaricino si dice che egli fu, analogamente a molti altri artisti europei che vissero, come Ciusa, negli anni turbolenti a cavallo dei secoli XIX e XX, un artista moderno che paradossalmente non amava la modernità. Rileva il critico d’arte Giuliana Altea: ‘ “Dopo tanto frastuono, ritorno ora nel silenzio della tanca”, scriveva Ciusa in una lettera del maggio 1907, all’indomani della sua affermazione alla Biennale di Venezia. “Frastuono” e “silenzio” sono i due poli tra cui si muove lo scultore nuorese: il frastuono in questo caso è quello del successo, ma è anche il rumore della città, contrapposto alla pace che regna nelle campagne solitarie della Sardegna. Col “frastuono” s’identifica per Ciusa la modernità, che è sul punto di spazzare via tante cose cui è abituato. Una modernità cui si sente profondamente estraneo, della quale non condivide la logica del progresso, il movimento convulso e incessante, la spinta verso uno sviluppo e un cambiamento ininterrotti.’

Lo scultore trova rifugio nella lentezza e nel tempo che scorre a misura d’uomo che contraddistinguono e regolano gli eventi tradizionali e il vivere quotidiano della sua terra. Testimonianza diffusa di ciò troviamo in tutta l’opera di Ciusa e segnatamente nelle sue opere principali La madre dell’ucciso (opera premiata alla biennale d’arte di Venezia del 1907), La filatrice, il dormiente, Il nomade, Dolorante anima sarda, Il monumento al poeta Sebastiano Satta, Il fromboliere, oltre che nei numerosi lavori in terracotta, in pasta di marmo e in ceramica. Il Museo Ciusa di Nuoro raccoglie una sessantina di pezzi (comprendendo tra essi disegni e documenti d’archivio) realizzati in un arco di tempo che va dai primi anni del Novecento fino agli anni Quaranta. Essi costituiscono testimonianza dei periodi in cui la cui ricerca espressiva dell’artista si fa più intensa. 

Non meno rappresentativa dell’estro artistico dei sardi è l’opera di Eugenio Tavolara, artista poliedrico che non fu solo scultore. Egli fu, soprattutto, l’iniziatore dell’artigianato sardo moderno (fu lui, negli anni Cinquanta del secolo scorso, a dirigere per la prima volta l’ISOLA – l’istituto sardo per l’organizzazione del lavoro artigiano), una sorta di progettista d’arte, di designer, di ‘creatore di arti applicate’ - azzeccata espressione utilizzata nel pieghevole che pubblicizza la mostra che celebra la sua opera, che tenta di riassumere tutto l’universo delle capacità creative dell’artista sassarese. Le sue opere, realizzate in solitudine oppure con l’aiuto di artisti e artigiani come Mario Pompei, Gavino Tilocca, Pasquale Tillocca ed altri, si muovono concettualmente nelle direzioni più varie e nei colori, nelle espressioni dei visi, nel significato più profondo veicolato dai manufatti presentati in mostra, con un unico denominatore: la Sardegna vista nelle sue innumerevoli sfaccettature. Non sono solo antico e moderno o sacro e profano ad essere rappresentati da Tavolara in questi meravigliosi oggetti: vi è, invece, un orizzonte vastissimo di emozioni e di suggestioni indotte da riflessioni sul mito, sul rapporto dell’uomo con la natura, sulla commovente credenza religiosa dei sardi, dal fiabesco, dalla semplice quotidianità delle cose e dei gesti che appartengono da sempre alle genti di Sardegna.

Eugenio Tavolara – Il mondo magico, iniziativa espositiva che si connota fortemente in senso identitario di cui ho amato particolarmente le tre serie dei pupazzi che rappresentano rispettivamente La cavalcata sarda e le processioni dei misteri e di S.Efisio, santo martire, quest’ultimo, che si festeggia a Cagliari, e il gruppo Le avventure di Pinocchio, è mostra ricca di fascino che presenta sculture, disegni, opere di design e oggetti di artigianato artistico come i preziosi tappetti, nella ideazione dei quali Tavolara è rimasto maestro insuperato. 

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