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Erdogan rischia di non essere rieletto?

Nonostante la stampa internazionale stia esaltando molto gli avversari dell'attuale Presidente della Repubblica manca ancora molto per le elezioni e il pallino del gioco è ancora in mano all'attuale leader del AKP. Molte cose possono cambiare, anche in virtù della recente riforma della legge elettorale. 

Il gallo che canta troppo presto viene decapitato, recita un proverbio turco. E il brutto periodo che sta vivendo il Presidente della Repubblica della Turchia Recep Tayyip Erdogan, su cui molti sono pronti a scommetterne una sconfitta elettorale merita maggior cautela, nonostante i problemi economici che il paese anatolico sta vivendo e nonostante i sondaggi vedano una decrescita felice dell’Alleanza del Popolo, coalizione che lo sostiene. Nel giugno 2023, quindi tra più di un anno, e in un anno di cose ne possono accadere ancora molte, la Turchia andrà alle urne in quello che potrebbe consacrare Erdogan come il leader politico più longevo della storia della Turchia. L’ex sindaco di Istanbul, al potere dal 2002, è stato definito dalla BBC non più tardi del 2020 «un gigante politico», visto che è stato capace di rimodellare il paese più di qualsiasi leader dai tempi di Kemal Ataturk. Ma recentemente molti analisti ed esperti, probabilmente a ragione, solo le urne lo stabiliranno, hanno decantato sui media internazionali la sconfitta del leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), un partito conservatore di destra, scrivendo che rischia seriamente di perdere la presa del potere oggi saldamente nelle sue mani, ancor più dopo le riforme costituzionali che lo hanno consacrato come uomo solo al comando. Le prime avvisaglie di disinnamoramento dell’elettorato turco risalgono al 2019, quando l’AKP complessivamente ha vinto le elezioni locali, ma ha perso nelle città più grandi: Istanbul, Ankara, Smirne, Adana e Mersina. In quell’occasione il Partito Democratico dei Popoli (HDP), filo-curdo e sostenitore dei repressi e delle minoranze in genere, ha sostenuto il Partito Popolare Repubblicano (CHP), socialdemocratico e progressista, non schierando candidati nelle città occidentali, quelle con una considerevole popolazione curda, risultando vincitore. Sintetizzando molto, da allora i partiti di opposizione hanno accelerato la reciproca convergenza unendo le forze e producendo essenzialmente due coalizioni distinte: l’Alleanza della Nazione, bipartisan, da molti considerata la vera alternativa a Erdogan, e l’Alleanza Democratica, l’unione delle sinistre radicali e delle minoranze curde, una possibile stampella anti-Erdogan, anche se allo stato delle cose, difficilmente lo sarà ufficialmente. In pochi credono infatti che la possibile coesistenza di sensibilità così differenti ed eterogenee possa essere duratura o spaziare al di fuori dal collante dell’anti-erdoganismo. Tra i fattori che uniscono i due schieramenti c’è la lotta al presidenzialismo, voluto da Erdogan nel 2017, ma entrato di fatto in vigore l’anno successivo. I partiti dell’Alleanza della Nazione sono praticamente uniti dal desiderio di ritornare al parlamentarismo, una forma istituzionale in cui il Presidente della Repubblica ha meno poteri rispetto a quelli attuali. Da un po’ di tempo a questa parte, con successo, le opposizioni stanno calcando la mano sugli effetti della crisi economica, partita nel 2018 e considerata dagli esperti la più grave degli ultimi venti anni: basti pensare che solo nel 2021 la lira turca ha perso il 44 percento del valore rispetto al dollaro, e quest’anno ha perso finora ancora il 15 percento. Un anno fa per un dollaro servivano 8 lire turche, anziché 14. A questi si aggiunga l’iperinflazione, giunta ad aprile al 70 percento, sospinta dall’incremento dei prezzi dell’energia e dei beni alimentari, saliti quest’ultimi dell’89 percento dall’anno scorso, ostacolati anche dal maggior costo delle importazioni. La Turchia, va detto, ha sì registrato la crescita più consistente tra i paesi del G20 nel 2021, l’11 percento, ma le previsioni per quest’anno, anche a causa della Guerra in Ucraina, prevedono vacche magre, riducendo l’incremento del Pil all’1.4 percento, tra i più bassi degli ultimi anni, secondo le stime offerte dalla Banca Mondiale.

Secondo un sondaggio Optimar condotto negli ultimi giorni di aprile, il 45.7 percento della popolazione intervistata ha manifestato preoccupazione per il rialzo dei prezzi, mentre il 31.5 percento ha mostrato apprensione per l’inflazione. In pochi credono che l’CHP possa veramente risolvere la situazione, circa il 23.8 percento, mentre il 33 percento, comunque poco visto che è il partito al governo, ha indicato l’AKP possa venire a capo dei problemi economici. Se le preoccupazioni per l’economia sono il motivo che più sta erodendo il consenso attorno a Erdogan, molti stigmatizzano la violazione dei diritti umani come altro problema che possa comunque affliggerlo. Molti sondaggi stanno registrando un netto calo nelle sue preferenze rispetto agli anni passati, tanto da metterne effettivamente in discussione la rielezione. Per quanto riguarda le consultazioni parlamentari la stessa misura demoscopica ha comunque evidenziato una supremazia di AKP nelle preferenze degli elettori, con il 36.2 percento. Segue, distaccato di poco meno di dieci punti, il CHP con il 26.6 percento dei voti. Più giù il Buon Partito (IYI), di centrodestra, europeista e kemalista, quindi laico e riformista, al 10.6 percento; l’HDP al 10.2 percento; e il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), ultranazionalista, anticomunista e avverso alle minoranze al 10.1 percento, in risalita rispetto a precedenti consultazioni. Optimar ha anche chiesto ai partecipanti chi voteranno alle elezioni presidenziali, e il risultato è stato che il 33,1 per cento sceglierebbe ancora Erdogan. In questa circostanza il leader dell’AKP può contare sulla sua candidatura unica, e quindi sul sostegno di tutta la coalizione che lo sostiene, mentre gli avversari rivaleggiano tra di loro non avendo ancora deciso, nel migliore dei casi, un candidato unico. Ecco perché nonostante il cospicuo vantaggio il leader di AKP rischierebbe ugualmente la riconferma, soprattutto al secondo turno, quando gli avversari potrebbero effettivamente far confluire tutte le forze contro di lui. Tra i nomi consultati dal sondaggio Optimar il secondo candidato più votato sarebbe Mansur Yavaş, 67 anni, attuale sindaco di Ankara in quota CHP, che ha raccolto il 13 percento di gradimento. Segue il leader del partito CHP, il 73enne Kemal Kılıçdaroglu, al 12 percento, e dal 51enne Ekrem Imamoglu, attuale sindaco di Istanbul in quota CHP, al 9.1 percento. Va detto che le preferenze per questo tipo di sondaggio sono molto condizionate dalle competenze dei singoli candidati, dalla loro personalità e dal seguito personale, ma il fatto che i tre sfidanti facciano parte dello stesso partito fa presupporre che in parte si dividano il voto di opinione, e ciò non è una buona notizia per Erdogan: mettendo per assurdo che fosse possibile far confluire tutti i voti di ciascun candidato questi si attesterebbe al 34.1 percento, superandolo. Senza contare dovrebbero essere sommati i voti degli altri partiti della coalizione e quelli di protesta, non calcolati da questo sondaggio. Tra quelli sicuri ci sono quelli di IYI, la cui leader Meral Aksener ha già detto di non voler correre per il ruolo di presidente, ma di puntare al ruolo di primo ministro una volta che il paese tornerà al parlamentarismo. In un sondaggio sul secondo turno delle presidenziali apparso sul “Financial Times” Erdogan è dato per spacciato contro tutti i candidati, registrando però il distacco minore proprio contro il leader di CHP Kılıçdaroglu, definito più come «creatore di Re» o un tecnocrate con poco carisma, piuttosto che un candidato ideale per la corsa alla vittoria. Kılıçdaroglu avrebbe un esiguo vantaggio sul rivale: il 43.3 percento contro il 42.5 del leader AKP, e la sua candidatura, secondo questi numeri, sarebbe quella che metterebbe più a rischio la vittoria. La forbice sarebbe più ampia se invece il candidato unico delle opposizioni fosse Yavaş. Yavaş è stato definito dal quotidiano britannico come uno «statista», ma il fatto di essere un ex membro del MHP lo sfavorirebbe perché faticherebbe a ottenere consenso tra i curdi. Nonostante ciò l’attuale sindaco di Ankara al secondo turno otterrebbe il 53.9 percento dei voti contro il 36.5 di Erdogan. Più tenue, ma comunque cospicuo, il divario tra il leader AKP e Imamoglu, candidato carismatico e populista, definito spregevolmente come un possibile «altro Erdogan» per via della sua brama di potere, che supererebbe l’attuale presidente 49.7 a 40.8 percento (le percentuali mancanti sono suddivise tra gli indecisi e il voto di protesta).

La coalizione di governo, come dimostra il rimbalzo nei consensi del marzo scorso, quando Erdogan ha potuto sfoggiare il suo ruolo di mediatore nel conflitto in Ucraina, conta di sovvertire il calo di consensi, ormai evidente da inizio anno, con politiche populiste o particolarmente efficaci. Tra queste gode di particolare appoggio tra la popolazione l’aumento del salario minimo garantito, che è la soglia minima che un lavoratore deve guadagnare lavorando, e che lì è tra i più bassi al mondo. Erdogan vuole inoltre valorizzare l’enorme industrializzazione avuta negli ultimi venti anni, quando le sue politiche hanno facilitato la capillarizzazione del settore, innestando in tutto il paese decine di cittadelle della tecnologia di ricerca e sviluppo, passate negli anni da 5 a 92. Queste piccole Silicon Valley sono un fiore all’occhiello per il paese, oltre che una vera risorsa economica, visto che hanno dato sostegno a circa 7000 imprese, producendo molti profitti: come dimostrano i 6.5 miliardi di dollari in alta tecnologia che la Turchia ha esportato nel 2021. Uno dei prodotti a largo consumo maggiormente attesi da qui alle elezioni è la Togg, l’innovativa e tecnologica auto elettrica prodotta interamente in Turchia (a parte il design, ideato da Pininfarina, quindi in Italia). Sul fronte grandi opere il leader turco punta ad avanzare in modo significativo i lavori del Canale di Istanbul, un progetto allora definito dal quotidiano “Sabah” «pazzesco» per dimensione e portata, ma paragonabile al Ponte sullo Stretto di Messina per annosità, nonostante i buoni segnali avuti dalla posa della prima pietra del ponte di Sazlidere, nella provincia di Istanbul, avvenuta nel giugno dello scorso anno. Più in generale il leader del AKP spera di far fruttare gli introiti generati dai nuovi giacimenti di gas naturale recentemente scovati nel Mar Nero e nel Mar Mediterraneo, oppure di godere dell’appoggio e dei finanziamenti dai paesi sauditi.

Erdogan sa inoltre che per rimotivare il suo elettorato ha bisogno di rivitalizzare la sua immagine. Per farlo, secondo alcuni esperti, starebbe rivolgendosi sempre più verso una base nazionalista, dai tratti sciovinisti e nativisti, quindi accesi e contro gli immigrati, cavalcando per esempio il malcontento diffuso riguardante l’immigrazione, soprattutto siriana. Erdogan sa pure che non può abbandonare le correnti islamiche, soprattutto quelle sunnite, ma soprattutto che deve ammaliare nuovamente i giovani, che assieme alla base religiosa sono stati il segreto dei precedenti successi elettorali. E’ proprio il malcontento tra i giovani, la Generazione Z, soprattutto quelli conservatori e nazionalisti che rappresenta un ulteriore banco di prova per la riconferma a presidente. Rimotivarli potrebbe infatti far tornare il suo consenso ai livelli pre-crisi, escludendo eventuali fughe verso altri partiti. Un sondaggio dell’associazione tedesca Konrad-Adenauer-Stiftung ha illustrato che il 73 percento dei giovani turchi desidera trasferirsi all’estero per via di fattori economici e di disoccupazione. Molti degli intervistati, comunque, non ritengono l’attuale Presidente della Repubblica colpevole della situazione.

Erdogan potrebbe avere qualche aiuto anche da qualche legge ad hoc, capace di incidere sulle votazioni. Giovedì 31 marzo ha infatti modificato la legge elettorale, riducendo la soglia necessaria per l’elezione dal 10 percento, la più alta al mondo, al 7 percento. Secondo alcuni analisti questa legge potrebbe spaccare l’asse delle opposizioni, redistribuendo i voti non più all’interno della coalizione, bypass utilizzato dai partiti più piccoli per ottenere scranni, ma tra i singoli partiti, favorendo i partiti più grandi. In molti hanno sottolineato come ad essere favorito dall’abbassamento della soglia potrebbe essere MHP, indispensabile alleato di AKP, calato negli ultimi mesi e che ultimamente ha galleggiato proprio attorno a quella soglia. Gli oppositori lamentano infine che potrebbero esserci dei brogli, visto che la legge ha cambiato anche le modalità di controllo. D’ora in avanti, infatti, i delegati saranno scelti a sorteggio anziché affidati a esperti come in passato.

Mentre Erdogan cerca di risalire la china, l’opposizione, seppur lentamente, si organizza. A febbraio i partiti di opposizione facenti parte l’Alleanza della Nazione hanno firmato un documento di 48 pagine il cui collante principale è di rivedere completamente il sistema presidenziale esecutivo, a favore di un sistema parlamentare con una soglia elettorale molto bassa, vicina al 3 percento, e con un ruolo del Presidente della Repubblica debole e poco incisivo. Nel presidenzialismo turco il Presidente può nominare i vicepresidenti, i ministri, ufficiali di alto grado e giudici di alto livello. Può anche sciogliere il parlamento, emanare decreti presidenziali esecutivi e indire lo stato di emergenza. Molto insomma. Tra i firmatari, che tra le altre cose vogliono rafforzare l’indipendenza della magistratura, figurano CHP; il Partito della Democrazia e del Progresso (Deva), liberale ed europeista, fondato dall’ex ministro dell’Economia Ali Babacan; il Partito Democratico (DP) di matrice liberal conservatrice; il Partito del Futuro (GP), conservatore di destra, fondato dall’ex primo ministro Ahmet Davutoglu; IYI; e il Partito della Felicità (SP), conservatore e islamista. In generale la coalizione promette di combattere le barriere contro la libertà di espressione, avvicinando il paese agli standard occidentali, ma non si sarebbe espressa a favore della questione curda, dei temi previsti dalla convenzione di Istanbul (i diritti delle donne), o sulle diseguaglianze in genere, come dichiarato dalla copresidente di HDP Pervin Buldan, giustificandone così l’assenza del suo partito dalla coalizione, nonostante il parere favorevole per il ritorno al parlamentarismo. Ad ostacolare l’alleanza tra i due poli sarebbe infatti SP, il più avverso alle tematiche LGBT tra i partiti della coalizione, mentre, al contrario, una sorta di sostegno e malcontento quindi, sarebbe stato manifestato da CHP e IYI. In qualche circostanza sia IYI e alcuni partiti di destra hanno mostrato insofferenza verso alcuni membri del CHP per via dell’eccessiva e assai poco efficace retorica populista, tra cui quella di Kilicdaroglu.

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