Emergenza carceri: una piccola rivoluzione in arrivo

Finalmente, dopo anni in cui l’Unione Europea lo chiedeva (e il buon senso civico lo imponeva), l’Italia è riuscita a varare un decreto legge grazie al quale sembra essere stata tracciata la strada per un risanamento della situazione delle carceri italiane. Attualmente le patrie galere ospitano circa 70.000 detenuti a fronte di una capienza di 47.000 persone. Anche la persona meno ferrata in matematica capisce che ci sono circa 20.000 persone in più rispetto a quelle che le celle italiane sono effettivamente in grado di ospitare.
E come vengono alloggiate queste 20.000 persone? Molto semplicemente si trasformano celle omologate per tre detenuti in celle adibite a ben 7 detenuti, comprando brandine smontabili per la notte che, durante il giorno, sono prontamente ripiegate e addossate alle pareti. Una situazione che si pone in palese contrasto con quanto stabilito dall’articolo 6 della Legge n° 354/75 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà):
“I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I detti locali devono essere tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia. I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti. Particolare cura è impiegata nella scelta di quei soggetti che sono collocati in camere a più posti. Agli imputati deve essere garantito il pernottamento in camere ad un posto a meno che la situazione particolare dell’istituto non lo consenta. Ciascun detenuto e internato dispone di adeguato corredo per il proprio letto”.
Quanto stabilito dalle norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà ha come scopo quello di garantire che “il trattamento penitenziario sia conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona” (art. 1 comma 1). Orbene, parlare di “umanità” e “rispetto della dignità” a fronte delle attuali condizioni in cui si trovano gli istituti penitenziari italiani è assolutamente stridente. Questa non è certamente la sede per riportare le singole disposizioni contenute all’interno dell’ordinamento penitenziario, perciò vi rimando al seguente link in modo che possiate farvi personalmente un’idea degli standard che il nostro Paese avrebbe dovuto adottare a livello penitenziario.
Tali standard non sono mai stati presi in considerazione rimanendo lettera morta all’interno di un testo di legge. Così, quando l’Italia è entrata nell’Unione Europea, ha per la prima volta dovuto prendere coscienza di questa sua grave lacuna e ha cominciato ad adottare una serie di strumenti che garantissero una riduzione della popolazione carceraria. L’emanazione della sentenza Torreggiani, con cui la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese al pagamento di una multa per le condizioni di vita in cui versano i detenuti italiani, ha sicuramente accelerato tale processo riformatore.
Il caso Torreggiani veniva sottoposto all’attenzione della CEDU nell’agosto del 2009 da parte di sette ricorrenti contro lo Stato italiano per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea, ossia la proibizione di trattamenti inumani e degradanti. Dal ricorso risultava che ognuno di loro aveva a propria disposizione meno di tre metri quadrati come proprio spazio personale. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha considerato che non solo lo spazio vitale indicato non sia conforme alle previsioni minime individuate dalla propria giurisprudenza, ma che tale situazione detentiva sia aggravata dalle generali condizioni di mancanza di acqua calda per lunghi periodi, mancanza di ventilazione e luce.
Tali condizioni, secondo la CEDU, sono di per sé idonee a costituire una violazione degli standard minimi di vivibilità determinando una situazione di vita degradante per i detenuti. Per tutti questi motivi i giudici europei hanno ritenuto di condannare l’Italia al risarcimento per i danni morali subiti in violazione dell’articolo 3 della Convenzione per una somma di circa 100.000 € per tutti i ricorrenti.
L’Italia, ben consapevole che una simile sentenza avrebbe comportato una serie innumerevoli di ricorsi e quindi di risarcimenti danni, è corsa ai ripari e ha posto tra le sue priorità la tanto richiesta riforma dell’ordinamento penitenziario. Il decreto legge di cui oggi si parla, dunque, non è altro che il frutto di queste vicende. Ma cosa prevede questo nuovo provvedimento?
- Quando la sentenza diventa definitiva, ove il condannato debba espiare una pena non superiore ai 2 anni (4 anni se donna incinta o con prole sotto i dieci anni, o se gravemente ammalato), il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena dandogli la possibilità di chiedere una misura alternativa al carcere, che spetterà al Tribunale di sorveglianza eventualmente concedere.
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Nel caso di soggetti che abbiano compiuto gravi reati o di soggetti in concreto pericolosi, ovvero sottoposti a custodia cautelare in carcere, questa possibilità non sarà offerta e il condannato resterà in carcere fino a quando il Tribunale di sorveglianza non ritenga, sulla base di una valutazione da svolgere su ogni caso specifico, che egli possa uscire in misura alternativa.
- Viene ampliata la possibilità per il giudice di ricorrere, al momento della condanna, a una soluzione alternativa al carcere, costituita dal lavoro di pubblica utilità. Tale misura, prevista per i soggetti dipendenti dall’alcol o dagli stupefacenti, fino a oggi poteva essere disposta per i soli delitti meno gravi in materia di droga, mentre ora potrà essere disposta per tutti i reati commessi da tale categoria di soggetti, salvo che si tratti delle violazioni più gravi della legge penale previste dall’art. 407, comma 2, lett. a), del codice di procedura penale – ossia i reati particolarmente gravi.
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Con lo scopo di alleggerire la pressione penitenziaria, il decreto legge amplia l’accesso ad alcune misure alternative a certe categorie di soggetti, che in passato erano invece esclusi, come i recidivi per piccoli reati. Se in passato tale preclusione si caratterizzava per una assoluta astrattezza, impedendo l’accesso alle misure anche nei casi in cui i soggetti avevano commesso reati di modesto allarme sociale e magari in un lontano passato, oggi l’eliminazione di tali automatismi consente al magistrato di sorveglianza di svolgere una valutazione in concreto, sulla base di elementi di giudizio forniti dagli organi di polizia e del servizio sociale del ministero di Giustizia. Per converso, nei confronti dei condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4 bis ord. pen., viene mantenuto il divieto di concessione di questa particolare forma di detenzione domiciliare.
Una piccola rivoluzione che permetterà entro il 2014 di togliere dalle carceri circa 4.000/5.000 detenuti. Il governo italiano è ben consapevole del fatto che tale cifra è assolutamente irrisoria se paragonata ai 20.000 detenuti eccedenti. Per questo motivo, il ministro Cancellieri sta studiando la possibilità di un’amnistia che garantisca nell’immediato l’uscita di almeno 5.000 detenuti.
Personalmente non ho mai creduto nelle amnistie in quanto strumenti in grado di risolvere il problema nell’immediatezza senza aver alcuna capacità di guardare al futuro. Non a caso, già in passato, i governi italiani hanno adottato tale misura ma, ancora oggi, parliamo di “emergenza carceri”. Tuttavia se un’amnistia ha lo scopo di garantire un po’ di respiro all’ordinamento penitenziario italiano nell’attesa che le misure del decreto legge comincino a produrre i loro frutti, credo che sia un valido supplemento a una riforma più sostanziale quale quella indicata nell’attuale decreto legge.
Di Marcello Bonazzi
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