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Commento di

su Emergenza carceri: una piccola rivoluzione in arrivo


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10 luglio 2013 08:01

Sono i giorni di chi parla di "svuota carceri", di buonismo e lassismo, di demenza senile, di leggi improponibili, di idee malsane, di orde barbariche scorazzare in strada, di migliaia di delinquenti liberi di interpretare la libertà come una prostituta, infine di penitenziari svuotati irresponsabilmente di ogni utilità e scopo.
Sono i giorni di chi invece non parla e non dice che non usciranno tutti questi uomini o pacchi o cose, di chi non dice e neppure parla che forse diminuiranno i garrotati, quanti "scelgono" di uscire da una sopravvivenza imposta con i piedi in avanti, non c’è chi parla e non c’è chi dice che questo decreto è un misero solco scavato nel deserto delle parole, perchè deprivato di strumenti appropriati, mentre invece per liberare la Giustizia dalle troppe ingiustizie-rallentamenti-indifferenze- occorre una precisa assunzione di RESPONSABILITA’, una misura IDONEA che liberi i tribunali dalle scartoffie e dalle tonnellate di arretrati, una DECISIONE che consegni dignità-diritto alla pena, a quella flessibile ed a quella certa, a quella pena che non rimane interpretazione per pochi eletti.
Non c’è chi dice e non c’è chi parla di quanti di questi uomini e donne pur sempre detenuti potranno essere assunti quà e là........ quanti potranno essere adibiti a lavori pubblica utilità............. "dentro" istituzioni pubbliche e private ( so bene di cosa sto parlando dal momento che gestisco come responsabile servizi interni della Comunità Casa del Giovane, un laboratorio di lavoro pubblica utilità per soggetti incappati nell’etilometro, in reati a bassa pericolosità sociale, per cui conosco perfettamente il carico delle EVENTUALI difficoltà), oppure quanti saranno in grado di fare i conti con una buona vita fatta di rispetto e di reciprocità, diventati "esperti" di destrutturazione e ristrutturazione perchè precedentemente attraversati da una qualche formazione intramuraria.
Una grande maturità raggiunta nel panorama penitenziario italiano forse andrebbe valorizzata con una maggiore incisività di interventi più che mai urgenti.
CELLA N.7
Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti, forse è addirittura irrapresentabile se non lo si tocca con mano.
L’immagine che si ha di una prigione è uno schema freddo e sintetico. Uno spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento, ove l’anima urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché soffocata dalle sue stesse grida, dall"imprecare, sanguinare, chiedere.
Uno spazio ove al suo interno non esiste principio né fine, né prima né dopo, alcun tempo. Né sopra né sotto, alcun spazio. Una dimensione di assoluto e di niente, di vuoto e di pieno.
Un movimento presente, passato, futuro; un punto di contatto, di aggregazione, di disgregante follia.
Linee e arredi spogli, poveri, insignificanti, ma a ben guardare, nel lungo tempo, divengono segni importanti; presenza viva nonostante tutto.
In questa prigione così oscura, tetra e dura, a tal punto da divenire un incubo, fino a farti ammuffire più del suo tetto-cratere corroso dal tempo: esiste un’umanità che sopravvive e infine chiede di vivere.
Questa cella, questo recinto stretto, questo carcere a distanza siderale dall’essere, difficilmente si impara ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la poesia, il teatro, la meditazione, i rapporti umani finalmente nati, mantenuti e custoditi.
Eppure si cresce sino a farlo diventare un tempio ove tentare di recuperare non solo attraverso la fede che un individuo professa, ma fors’anche e soprattutto da ciò che in ciascuno incombe; la responsabilità di " ritrovare e ricostruire se stesso".
Ci sono momenti in cui il panico assale, paralizza, terrorizza, e non ci rendiamo conto di come abbiamo fatto diventare queste quattro mura; "un mito", tentando di modificare questa dimensione disumanizzante in un luogo aperto ad alternative di conoscenza e di mutamento interiore.
A volte persino la perdita di memoria é una scelta individuale per non vedere né sentire, ecco che allora aprire gli occhi e saperli poi abbassare, consapevoli dei bisogni, dei desideri e delle aspettative, diventa un gesto, un comportamento ed un’azione che superano di gran lunga lo spauracchio di quel mito costruito troppo spesso a nostra misura.
Spesso chiediamo quando giungerà il tempo per "ritenere di essere" a fronte dei chiavistelli e degli scarponi chiodati, vagando per campi minati, aggrovigliati nel filo spinato facendoci ancora più male, in una sofferenza per lo più amministrata e comunque mai consapevole.
Appoggiandoci ai lampi di vita dispersi e incendiati, comprendiamo che importante "non é esserci " ma capire "ciò che si é", ciò che siamo e dobbiamo essere," per reinventare la nostra vita”.
Forse ciò è possibile recuperando un atteggiamento più attivo e propositivo anche dentro un carcere, con la capacità di riconoscere le proprie potenzialità, i propri interessi, per poi tradurli in un progetto di auto-realizzazione, senza per questo arenarci a fronte di situazioni che solo apparentemente paiono troppo destrutturate; per cui le viviamo sovente come potenzialmente negative.
Credo sia il tempo di assumerci in prima persona le nostre responsabilità con il coraggio delle nostre azioni. Perché non esprimere la propria opinione, ma anche non averla, significa non avere consapevolezza delle proprie esigenze, non farsi portatori di un proprio progetto di vita personale.
Allora rifuggire il nuovo, senza scommettersi, non impegnarsi insieme con gli altri, Operatori Penitenziari e la Società civile, non esponendosi in prima persona per la propria crescita personale e professionale: equivale a non vivere pienamente questa vita che ci precede e osserva, trasfigurando la quotidianità, trascendendo l’umanità stessa.
Così restituendoci almeno in parte alla nostra dignità di uomini.


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