Sono i giorni di chi parla di "svuota
carceri", di buonismo e lassismo, di demenza senile, di leggi
improponibili, di idee malsane, di orde barbariche scorazzare in strada,
di migliaia di delinquenti liberi di interpretare la libertà come una prostituta, infine di penitenziari svuotati irresponsabilmente di ogni utilità e scopo.
Sono i giorni di chi invece non parla e non dice che non usciranno
tutti questi uomini o pacchi o cose, di chi non dice e neppure parla che
forse diminuiranno i garrotati, quanti "scelgono" di uscire da una
sopravvivenza imposta con i piedi in avanti, non c’è chi parla e non c’è
chi dice che questo decreto è un misero solco scavato nel deserto delle
parole, perchè deprivato di strumenti appropriati, mentre invece per
liberare la Giustizia dalle troppe
ingiustizie-rallentamenti-indifferenze- occorre una precisa assunzione
di RESPONSABILITA’, una misura IDONEA che liberi i tribunali dalle
scartoffie e dalle tonnellate di arretrati, una DECISIONE che consegni
dignità-diritto alla pena, a quella flessibile ed a quella certa, a
quella pena che non rimane interpretazione per pochi eletti.
Non c’è
chi dice e non c’è chi parla di quanti di questi uomini e donne pur
sempre detenuti potranno essere assunti quà e là........ quanti potranno
essere adibiti a lavori pubblica utilità............. "dentro"
istituzioni pubbliche e private ( so bene di cosa sto parlando dal
momento che gestisco come responsabile servizi interni della Comunità
Casa del Giovane, un laboratorio di lavoro pubblica utilità per soggetti
incappati nell’etilometro, in reati a bassa pericolosità sociale, per
cui conosco perfettamente il carico delle EVENTUALI difficoltà), oppure
quanti saranno in grado di fare i conti con una buona vita fatta di
rispetto e di reciprocità, diventati "esperti" di destrutturazione e
ristrutturazione perchè precedentemente attraversati da una qualche
formazione intramuraria.
Una grande maturità raggiunta nel panorama
penitenziario italiano forse andrebbe valorizzata con una maggiore
incisività di interventi più che mai urgenti.
CELLA N.7
Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti, forse è addirittura irrapresentabile se non lo si tocca con mano.
L’immagine che si ha di una prigione è uno schema freddo e sintetico. Uno spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento,
ove l’anima urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché soffocata
dalle sue stesse grida, dall"imprecare, sanguinare, chiedere.
Uno
spazio ove al suo interno non esiste principio né fine, né prima né
dopo, alcun tempo. Né sopra né sotto, alcun spazio. Una dimensione di
assoluto e di niente, di vuoto e di pieno.
Un movimento presente, passato, futuro; un punto di contatto, di aggregazione, di disgregante follia.
Linee e arredi spogli, poveri, insignificanti, ma a ben guardare, nel
lungo tempo, divengono segni importanti; presenza viva nonostante tutto.
In questa prigione così oscura, tetra e dura, a tal punto da divenire
un incubo, fino a farti ammuffire più del suo tetto-cratere corroso dal
tempo: esiste un’umanità che sopravvive e infine chiede di vivere.
Questa cella, questo recinto stretto, questo carcere a distanza siderale
dall’essere, difficilmente si impara ad accettarlo come intorno, a
colorarlo con il lavoro, la poesia, il teatro, la meditazione, i
rapporti umani finalmente nati, mantenuti e custoditi.
Eppure si
cresce sino a farlo diventare un tempio ove tentare di recuperare non
solo attraverso la fede che un individuo professa, ma fors’anche e
soprattutto da ciò che in ciascuno incombe; la responsabilità di "
ritrovare e ricostruire se stesso".
Ci sono momenti in cui il panico
assale, paralizza, terrorizza, e non ci rendiamo conto di come abbiamo
fatto diventare queste quattro mura; "un mito", tentando di modificare
questa dimensione disumanizzante in un luogo aperto ad alternative di
conoscenza e di mutamento interiore.
A volte persino la perdita di
memoria é una scelta individuale per non vedere né sentire, ecco che
allora aprire gli occhi e saperli poi abbassare, consapevoli dei
bisogni, dei desideri e delle aspettative, diventa un gesto, un
comportamento ed un’azione che superano di gran lunga lo spauracchio di
quel mito costruito troppo spesso a nostra misura.
Spesso chiediamo
quando giungerà il tempo per "ritenere di essere" a fronte dei
chiavistelli e degli scarponi chiodati, vagando per campi minati,
aggrovigliati nel filo spinato facendoci ancora più male, in una
sofferenza per lo più amministrata e comunque mai consapevole.
Appoggiandoci ai lampi di vita dispersi e incendiati, comprendiamo che
importante "non é esserci " ma capire "ciò che si é", ciò che siamo e
dobbiamo essere," per reinventare la nostra vita”.
Forse ciò è
possibile recuperando un atteggiamento più attivo e propositivo anche
dentro un carcere, con la capacità di riconoscere le proprie
potenzialità, i propri interessi, per poi tradurli in un progetto di
auto-realizzazione, senza per questo arenarci a fronte di situazioni che
solo apparentemente paiono troppo destrutturate; per cui le viviamo
sovente come potenzialmente negative.
Credo sia il tempo di
assumerci in prima persona le nostre responsabilità con il coraggio
delle nostre azioni. Perché non esprimere la propria opinione, ma anche
non averla, significa non avere consapevolezza delle proprie esigenze,
non farsi portatori di un proprio progetto di vita personale.
Allora
rifuggire il nuovo, senza scommettersi, non impegnarsi insieme con gli
altri, Operatori Penitenziari e la Società civile, non esponendosi in
prima persona per la propria crescita personale e professionale:
equivale a non vivere pienamente questa vita che ci precede e osserva,
trasfigurando la quotidianità, trascendendo l’umanità stessa.
Così restituendoci almeno in parte alla nostra dignità di uomini.