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Elezioni siciliane: cosa si impara? Appunti verso le politiche

In estrema sintesi: il centro destra ha vinto ma non ha raggiunto il 40, pure se di un pelo, il Pd si sta squagliando come una granita a ferragosto, il M5s ottiene un risultato buono, ma non splendido, prestazione meno che mediocre della lista di sinistra.

Il centro destra torna padrone dell’isola persa in una sola occasione e per una divisione interna. Ora, però, si trova a veleggiare verso un porto che esclude il “piano B” del Nazareno e non assicura i numeri per governare da soli: se un partito sfiora e non raggiunge il 40% in una delle sue roccaforti, significa che non ci sono molte prospettive che faccia il 40% nazionale, perché deve mediare con il risultato del centro che va sotto il 25-30% e non basta il Lombardo -Veneto.

C’è sempre da sperare nei collegi uninominali, ma il risultato cambia di poco perché, a meno di non prenderli proprio tutti o quasi, dovrebbe avere circa il 35%, oppure sperare in una altissima percentuale di voto disperso a causa della clausola di sbarramento del 3%. Entrambe condizioni non probabilissime, anche se possibili.

Va detto che il centro destra è l’unico polo avvantaggiato dal sistema elettorale che, invece, punisce il Pd più di tutti. Dio solo sa perché il Pd ha fatto questa pazzia di concedere questa legge elettorale, ma, forse, dipende dal fatto che ha dei tecnici della materia che sono autentiche capre.

Comunque, di fatto, questo risultato riduce al lumicino le speranze di un centro destra autosufficiente e liquida il “piano B2 del Nazareno, perché il Pd perde troppo ed il rischio sarebbe quello di andare a fare il “cespuglio di Berlusconi”: una condizione inaccettabile, a meno di un suicidio. Le elezioni tedesche hanno detto che le grandi coalizioni con i partiti di centro destra non convengono ai partiti dell’Internazionale socialista, figuriamoci in questa situazione in cui il Pd già cala a precipizio. A meno di una forte tenuta del Pd o di una sua improbabile ripresa, il Nazareno è una storia chiusa.

Infatti il Pd sprofonda all’infernale terzo posto, che, nelle competizioni di tipo maggioritario, impone la ”tassa del voto utile” e condanna alla marginalità: basti notare che il candidato presidente prende l’8% in meno dei suoi voti di lista, per capire che una fetta mica piccola del suo elettorato ha preferito Cancelleri per sbarrare la strada a Musumeci.

Per 25 anni il Pds-Pd ha vissuto della rendita parassitaria del “voto utile” (perché “bisogna battere la destra”, ricordate?) ora una felice nemesi lo condanna alla sconfitta proprio per effetto del “voto utile”.

Oggi il Pd è dato al 25% circa e le prospettive sono quelle di un drastico peggioramento. In primo luogo perché i partiti che hanno l’immagine di perdenti, poi perdono davvero, in secondo luogo perché ci sono ancora scissioni in arrivo, in terzo luogo perché l’armata dei consulenti e consiglieri di amministrazione dei vari enti pubblici, appurato che non c’è più trippa per gatti, ci metterà pochissimo a cambiare bandiera.

Ma, soprattutto, il Pd sta pagando il prezzo della sconfitta referendaria di un anno fa. Se Renzi fosse un po’ più colto o, almeno, cercasse di informarsi, saprebbe che è una costante che i partiti che perdono clamorosamente referendum particolarmente sentiti, dopo si rompono le ossa: successe alla Dc di Fanfani nel 1974 sul divorzio, al Pci nel 1985, al Psi di Craxi nel 1991 sulla preferenza unica, al centro destra sul referendum istituzionale del 2006 ed ora a lui. Ed il conto non è ancora arrivato del tutto. Peraltro, il confronto sarà tutto giocato fra centro destra e M5s, relegando il Pd alla posizione di terzo perdente.

Le elezioni parziali spesso disegnano le tendenze del voto politico successivo anche se, ovviamente tendenze non significa certezze e possono sempre insorgere controtendenze.

Nella maggior parte dei casi, però, questo non si verifica e le tendenza proseguono sino in fondo. Qui la tendenza è quella allo squaglio del Pd (e il risultato di Ostia lo conferma), peraltro, coerentemente con quello che accade agli altri partiti dell’Internazionale socialista che stanno andando all’estinzione.

Più complesso è studiare le tendenze riguardanti il M5s che, dicevamo, ha avuto un risultato buono ma non splendido. Il confronto va fatto con la serie storica dei risultati siciliani e tenendo conto più del risultato della lista che di quello del candidato Presidente che va poco oltre il risultato migliore del M5s (il 33%) che è quello delle politiche del 2013; ma la lista arretra sensibilmente, rispetto ad esso, collocandosi sotto il 27%.

Tenuto conto del fatto che nelle amministrative, il M5s va sempre peggio delle politiche, il risultato in sé non è cattivo ed indica, grosso modo, una sostanziale stabilità con un saldo leggermente negativo dei flussi da e per l’astensionismo, compensato da un saldo positivo nei confronti del Pd che si somma ad un 7% in più per il candidato Presidente e che corrisponde quasi perfettamente all’8% che manca a Micari rispetto alle sue liste.

Ovviamente, non è affatto detto che tutto quel 7% tornerà al M5s in occasione delle politiche, con un sistema elettorale diverso, ma è possibile che qualcosa rimanga. E’ probabile, come i sondaggi confermano, che il M5s abbia una tendenza all’aumento, ma molto contenuta, anche perché pesa il più che prevedibile risultato negativo di Roma (ad Ostia -14% ed è importante vedere se il ballottaggio confermerà la candidata grillina al primo posto). Peraltro, non è detto che non possa addirittura esserci una flessione rispetto a 5 anni fa. Ma, voto più, voto meno, questo risultato indica una tendenza alla stabilizzazione del M5s che resta ben lontano dalla soglia del 40%. A meno che non si verifichi una valanga dal Pd. E questo può avvenire in due modi forse concomitanti: da un lato un passaggio di voti dal Pd al M5s, in nome del voto “utile” a battere la destra, dall’altro per effetto di una nuova scissione verso il Mdp-lista di sinistra che potrebbe regalare molti collegi toscani ed emiliani al M5s.

Facciamo un esempio di comodo: in un determinato collegio toscano, il Pd attualmente ha il 40% dei voti, il M5s il 29%, la destra il 21%, dopo la serie di scissioni, il Pd scende al 28%, la lista di sinistra si aggiudica il 12%, la destra resta al 21% ed il M5s resta al 29%: vince in candidato M5s. Si tratta di un esempio teorico, ma che potrebbe realizzarsi in un certo numero di collegi più o meno ampio. Quanto ampio dipenderà da due fattori concomitanti: quanto resisterà il partito di Renzi –che deve fare i conti con la tempesta degli scandali bancari che, proprio in Toscana, incidono- e la capacità del M5s di attrarre voti da quel bacino.

E qui si pone un problema: il M5s, sin qui, ha orientato la sua strategia elettorale a “sfondare” verso la Lega (questione immigrati, campagna sulla corruzione) e verso la destra moderata (politica fiscale), ma, allo stato dei fatti, la destra è galvanizzata dalla possibilità di vittoria (diversamente dal 2013), per cui il suo elettorato risulta più compatto e meno espugnabile. Vice versa, è il fianco del Pd quello che sembra cedere più facilmente, per cui è in questa direzione che il M5s deve lavorare verso l’area Pd (oltre che verso l’astensionismo, dove deve invertire la tendenza negativa), ma questo presuppone una forte correzione di tiro.

Certamente il M5s ha una carta importante da giocare: essere l’argine credibile contro il ritorno di Berlusconi sia perché è più consistente del Pd (il tema del “voto utile”) sia perché, se ci fosse una ripresa del Pd, potrebbe rispuntare il Nazareno. D’altro canto, l’avversario del M5s sarà il centro destra per cui nessun dubbio sul fatto che si debba far fuoco su Berlusconi. Inoltre, la possibile alleanza con la Lega mi sembra sia sfumata del tutto: Salvini oggi è saldamente alleato a Berlusconi e un giro di valzer post elettorale potrebbe non convenirgli –meglio nuove elezioni, nel caso di impossibilità di fare maggioranza-.

Al contrario, l’unico a manifestare una qualche disponibilità all’appoggio esterno, ad un governo 5 stelle, è stato Bersani. Ma questo presuppone che il M5s presenti una piattaforma di governo attrattiva nei confronti della sinistra, il che non è semplice con un candidato leader come Di Maio. Ma staremo a vedere. Di fatto, questo risultato conferma il M5s come forza anticasta (e per questo dovrebbero essere fermate certe tendenze all’omologazione che minacciano una mutazione genetica che il movimento potrebbe pagare molto cara).

Infine la sinistra che ha un risultato non buono: con uno spostamento di 7-8 punti dal Pd non intercetta un voto ma sostanzialmente porta a casa i voti di sempre più qualcosa. Il problema è che la sinistra dà una sensazione di vecchio, di politicista, di poco utile. Perde tempo a discutere se deve scegliersi come leader Pisapia o Grasso, a discutere se deve allearsi al Pd o meno (e per fare cosa? anche con i suoi voti, posto che si spostino come un blocco e non si disperdano, il Pd resterebbe terzo) ma non ha nessuna iniziativa politica sui temi reali dello scontro politico. Speriamo si riprendano un po’.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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