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Elezioni amministrative. Se per il 2012 provassimo a cambiare?

Le elezioni amministrative sono una competizione in cui la politica, intesa in senso “nobile”, ha sempre avuto un low profile. Lo stretto legame fra l’elemento umano e il territorio da governare, le conoscenze dirette, i legami parentali, il possibile coinvolgimento di interessi personali rende questo tipo di consultazione politica la meno “politica in senso proprio” (e la più “politica in senso comune”), al punto da tenersene scarsissimo conto nelle statistiche elettorali nazionali. 

Oggi poi, che la politica tradizionale ha perduto quasi del tutto (e forse definitivamente) il suo appeal, le elezioni volte al rinnovo degli enti locali sembrano assumere sempre di più e soltanto lo status di straordinario laboratorio antropologico, capace di svelare potenzialità etiche che solo il “soggetto candidato” è in grado di esprimere in modo così intenso. Tutto ciò, infine, assume un delizioso sapore parossistico se affrescato dalle straordinarie pennellate di colore che solo il meridione d’Italia sa offrire.

Per valutare i servigi resi dalle elezioni amministrative al tessuto socio-culturale italiano e, nella fattispecie, meridionale, dobbiamo partire da una considerazione elementare: la campagna elettorale in una piccola cittadina del sud serve innanzitutto a recuperare il senso della famiglia, nel senso più ampio che si possa intendere. Nel breve (ma intenso) periodo dedicato alla raccolta dei consensi, infatti, è abbastanza frequente che ti si svelino consanguinei di cui mai avresti sospettato né l’esistenza né tantomeno la passione politica; parenti di ogni ordine e grado che ti fanno rivivere i fasti della gloriosa famiglia patriarcale: i gradi di parentela si sommano, si moltiplicano, fino ai cugini di 7°-8° grado, come si trattasse dei gradi della scala Richter. Ma attenzione: nell’urna elettorale le parentele, se non sottoposte a un vaglio razionale, possono provocare danni anche peggiori di quelli di un terremoto.

E poi ci si bacia. Già, noi meridionali ci baciamo molto, indipendentemente dal reciproco sesso e da specifiche occasioni. Verosimilmente ci baciamo più di quanto il bon ton permetta; ma in fondo si tratta dell’espressione di un calore, di un’esuberanza che non riusciamo a contenere e alla fine è un nostro tratto distintivo.

Durante la campagna elettorale, però, il bacio diventa una pratica ossessiva, un’attività capace di impegnare il candidato locale per buona parte della sua giornata tipo. Ti si avvicina guardandoti fisso; il suo sguardo esprime voluttà, desiderio di conquista, libidine. Poi ti tira a sé stringendoti la mano con forza maschia e quindi ti bacia. Le sue labbra ti si stampano sulle guance con una maestria che più che al capocosca nella cerimonia di affiliazione ti fa pensare ad uno che sta sfogando i suoi istinti nascosti e/o repressi. Ma intanto, attraverso quel bacio, lui, il candidato, è certo di aver iscritto un’ipoteca sulla tua volontà da elettore, che ricambierà con la preferenza il piacere ricevuto da quel bacio tanto ben assestato.

Con queste premesse, esprimere liberamente la propria volontà nel seggio elettorale non è facile, considerata anche la selva di candidature che normalmente ciascun grand-medio centro del sud Italia esprime ad ogni tornata. Cadere nell’errore è quanto mai facile ed è forse il motivo che ha impedito a tante città meridionali di “svelarsi” nella loro bellezza ed a noi di erigere il basamento di quella straordinaria costruzione chiamata democrazia. Perché se il meccanismo della partecipazione responsabile si inceppa già a partire dagli enti locali è certo che l’edificio democratico, quello vero e maestoso, rimarrà una chimera.

Un consiglio comunque mi sento di darlo. Esiste una discriminante che può tornare d’aiuto quando il povero elettore, confuso fra favori, baci e parentele, non sa a quale cognome vorrebbe garantire il gettone di presenza alle sedute del Consiglio Comunale: basta ipotizzare che un giorno un inviato de Le Iene si posizioni fuori dalla porta del massimo consesso civico e rivolga ai signori consiglieri delle domande, non dico sulla storia del Risorgimento, ma sulla storia della propria città, sulle sue origini, sulle funzioni municipali, sul ruolo del consiglio comunale. Vorreste che il candidato da voi prescelto si trovasse nell’assai imbarazzante condizione di non saper rispondere o, peggio, di rispondere con emerite cavolate, com’è spesso capitato ai signori onorevoli deputati e senatori della becera repubblica? No, mai!

Allora pensiamoci, mentre veniamo pervasi dall’odore di cancelleria che emana dalla matita sapientemente appuntita e dalla scheda elettorale intonsa: un perfetto estraneo onesto, preparato e riservato vale mille parenti di ennesimo grado, pomicioni, ignoranti e sprovveduti. Diceva un omino smunto con gli occhiali tondi: “noi dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere”. E il cambiamento inizia dal particolare. Meditate gente, meditate. Perché l’Italia merita e il Sud ancor di più.

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