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Eccessi senza criterio: intervista a Raimondo Pavarin

Raimondo Pavarin, sociologo epidemiologo, insegna Paradigmi delle dipendenze all’Università di Bologna. Ha pubblicato il libro Dal deviante clandestino al consumatore socialmente integrato (2012) e Sballo. Nuove tipologie di consumo di droga nei giovani (Erickson, 2010).

La droga e i giovani: com’è la situazione in Italia?

Per quanto riguarda i giovani ci sono almeno due cose fondamentali da dire. La prima: sta tramontando la distinzione fra sostanze legali e illegali; ormai i giovani le utilizzano per gli stessi motivi e indifferentemente, più che altro in base alle disponibilità economiche e delle sostanze stesse. Ciò è legato al processo di deculturalizzazione dell’uso delle droghe, particolarmente visibile nel caso dell’alcol: ormai non se ne consuma più solo in certi modi e contesti, quello che conta è la mera assunzione di una certa quantità di sostanza. L’eccesso diventa, per così dire, automatico. La seconda è che - per quanto riguarda in specie le sostanze diverse dall’alcol - si riscontra un consumo ”razionale” (ponderato e finalizzato) che marcia di pari passo a un consumo casuale: lo si nota in particolare negli immigrati di seconda generazione. Non si osservano invece differenze nel consumo tra italiani e stranieri in generale.

Perché questa differenza fra la prima e la seconda generazione?

Cominciamo col dire che servono ancora studi approfonditi: basti pensare che in Italia studi sugli immigrati di seconda generazione non ce ne sono, noi ci basiamo sugli studi dei Paesi anglosassoni (che si avvantaggiano dell’esperienza secolare imperiale e postimperiale). Fondamentalmente gli immigrati di seconda generazione - cioè figli di immigrati, nati in Italia e talora aventi cittadinanza italiana - sono individui già integrati socialmente, ma si trovano comunque immersi in una realtà familiare segnata da persistenti difficoltà economiche.

Quale droga prediligono i giovani?

La droga che prediligono è l’alcol. E dopo viene la cannabis. Solo più tardi, alla soglia della maggiore età, si comincia a parlare di droghe sintetiche (e anche lì rimane un discorso un po’ minoritario, di nicchia). Parliamo ovviamente sempre di medie statistiche, le eccezioni e le particolarità ci sono dovunque.

Togliendo la discoteca, le cattive amicizie e la facilità nell’acquisto... cos’è che conduce i giovani alla droga?

Intanto la discoteca non è più di moda. E mi sembra molto discutibile anche il discorso sulle cattive amicizie: ognuno si sceglie in pratica le amicizie che preferisce, anziché subirle. L’elemento che al di là di questo salta all’occhio è invece la famiglia: spesso i giovani arrivano alla droga scoprendo che i genitori ne fanno uso. Un modo di dare il cattivo esempio che non è molto diverso da quello dei genitori che offrono le sigarette ai figli. Le motivazioni rimangono le stesse: voglia di divertirsi, di “sballare”, anche semplicemente di provare. Sono molti quelli che provano e non continuano.

Quindi tra i giovani si riscontra più un consumo occasionale che abitudinario?

In realtà è un po’ una via di mezzo: si tratta spesso di un consumo abituale, ma concentrato nei fine settimana. I giovani conoscono le sostanze e sanno come gestirsele: uno non può ubriacarsi e dopo andare a scuola. D’altro canto, anche il controllo esercitato dalla famiglia si allenta nel fine settimana, rendendo tutto più agevole.

E la dipendenza non si innesca a questo livello?

Sto conducendo proprio in questi giorni uno studio su un campione di consumatori socialmente integrati, cioè persone che consumano droghe abitualmente - magari lavorano, hanno una famiglia ecc. - e non si sono mai recate ai Servizi (in Italia esistono i SerT, Servizi per le Tossicodipendenze, facenti capo alle ASL, N.d.R.). Rispetto agli studi che ho fatto già dieci anni fa rilevo una sola differenza: allora era un fenomeno di nicchia, oggi è di massa. La popolazione che si rivolge ai SerT diminuisce, mentre aumenta la fascia di consumatori integrati. Al contempo aumenta la fascia del consumo problematico, cioè di quelle persone che in seguito all’assunzione di sostanze si ritrovano in ospedale o al pronto soccorso.

Sembrerebbe dunque che i giovani si rivolgano oggi alla droga più per cause effimere che per ansie e disagi profondi.

Il punto di partenza per ogni discorso attuale sulla droga è che oggi la droga è una merce come ogni altra; e nel momento in cui una certa merce si diffonde alla massa, perde il suo significato originario. Lo si vede in questo curioso rovesciamento: quindici anni fa la droga era un modo per distinguersi dagli altri; oggi è un modo per omologarsi. Oggi far uso di droghe non è più molto diverso dal bere una bibita qualunque.

“Qualsiasi cosa purché si consumi”, insomma.

Prima parlavamo della deculturalizzazione dell’uso di sostanze. Noi, della generazione precedente, sapevamo che non si beve al mattino; che, nel cambiare bevanda alcolica, è corretto passare da una gradazione inferiore a una superiore (ma non il contrario) ecc. Oggi non ci sono più regole, e non si beve più per gusto o in maniera “speciale”: si beve per ubriacarsi e basta. È una conseguenza della deculturalizzazione: oggi che il pranzo di mezzogiorno non esiste più e che il “sapere sull’alcol” non viene più trasmesso in maniera codificata alle nuove generazioni, nulla impedisce ai giovani di pensare che si possano bere 6 bicchieri di vino a stomaco vuoto; o che ci si possa ubriacare anche a dodici anni ecc. Lo si legge nei simboli alcolici delle varie epoche: nei ‘70 il simbolo dello sballo alcolico era l’assenzio, consumato dagli artisti e dagli intellettuali più raffinati. Oggi la moda alcolica è quella del binge-drinking, che consiste in null’altro che bere sei unità alcoliche in un tempo ristretto. Un eccesso senza criterio. Che conduce a pratiche ben più pericolose (anche se, fortunatamente, poco diffuse), come quella dell’eyeballing (che consiste nel versarsi superalcolici, tipicamente vodka, direttamente negli occhi, N.d.R.).

Quale strategia individua per allontanare i giovani dalla droga? Sarebbe a favore di una politica proibizionistica?

Il piano del mio discorso rimane, per così dire, “tecnico”, non entro nel merito delle scelte politiche. Quello che vedo, da un punto di vista generale, è la mancanza di integrazione fra le diverse strategie: a Bologna si proibisce di somministrare alcolici diopo le 11 di sera, così i giovani si spostano a Firenze dove possono continuare a bere (aumentando il rischio di incidenti stradali). Ci vorrebbe, innanzitutto, una maggiore omogeneità negli indirizzi. Per contro, va detto che sono in calo sia gli incidenti alcol-correlati in generale sia, in particolare, i “morti del sabato sera”. E questo è siciuramente un effetto positivo di quelle che sono le poliiche di dissuasione messe in atto ormai da diversi anni, soprattutto la sanzione del ritiro della patente. Per quanto riguarda le sostanze, io non sono personalmente né proibizionista né antiproibizionista:

A quale età si comincia a “provare” la droga?

C’è anche chi inizia a 11 anni, ma il fenomeno si riscontra con intensità solo a partire dai 15-16. Buona parte, va aggiunto, smette entro i 24 anni. Quelli ai quali mi sto interessando di questi tempi sono proprio quelli che invece non smettono, persone che progettano e portano avanti la loro vita da adulti integrandovi l’uso di sostanze in maniera gestita, metodica. Credo sia il fenomeno più interessante da osservare e più tipico dei nostri giorni. Molti di essi sono passati attraverso esperienze negativa con la droga e hanno modificato sostanza o modo d’uso, imparando di amministrarsi con precisione e calcolo. Tuttavia, si tratta sempre di vite piene di problemi.

Il Suo appello a un diciottenne del terzo millennio.

Io non faccio appelli! Dai giovani preferisco imparare, perché la mia esperienza mi ha insegnato che è vero che ogni età ha le sue problematiche e nessuno può pensare di conoscerle in anticipo. Quello che si può fare è imparare ad ascoltare i giovani e a cercare di entrare nella loro mentalità. Si potrebbe scoprire - a noi capita quotidianamente, nelle nostre indagini - qualcosa di insospettato.

Cioè?

Cioè che alla fine la droga è il problema minore, e spesso soltanto effetto di problemi più a monte. È un po’ come per gli incidenti stradali: quando qualcuno ci resta secco, tutti guardano l’alcol, ma nessuno guarda la pericolosità intrinseca dell’auto. Così, io credo che il problema più grande dei giovani non sia la droga, ma - ad esempio - il lavoro. Tutti quelli che intervistiamo non fanno che dirci di aver paura del futuro, di aver perso la speranza, di non riuscire a immaginare un avvenire. Non che la droga non sia un problema in sé; la droga è certamente un problema e anche grande. Ma i problemi più grandi e più urgenti credo siano questi.

Cosa dire, da ultimo, ai genitori?

Essere genitori oggi è certo molto difficile, almeno quanto lo è essere figli: i ritmi sono velocissimi, il tempo è poco, le aspettative sono alte. Ai genitori spetta dare il buon esempio: quanti possiamo dire che siano i genitori che non fumano e non assumono alcol o sostanze? Poi il grosso sforzo sarebbe quello di aggiornarsi, di informarsi sull’argomento (i giovani d’oggi sono quasi sempre molto più informati dei genitori), di parlarne con altre persone. Questa è veramente la lacuna più grossa del sistema italiano: si fa molta prevenzione (e con ottimi risultati) e si offrono buoni servizi ai tossicodipendenti, ma non c’è nessuno che si occupi della formazione delle famiglie. È un punto importante sul quale c’è ancora molto da lavorare.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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