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 Home page > Tribuna Libera > Ebreo accoltellato per strada a Milano

Ebreo accoltellato per strada a Milano

Ovviamente, prima o poi, doveva succedere. Ieri a Milano un giovane ebreo è stato accoltellato per strada.

Sia chiaro, l’aggressione potrebbe avere motivazioni diverse: da quelle personali a quelle politiche. L’accoltellatore potrebbe essere un marito tradito, un socio in affari incavolato oppure un estremista di destra o della galassia di sinistra, ma le modalità dell’assalto pare indicare, con pochi dubbi, un’emulazione della recente “intifada dei coltelli” dei giovani palestinesi.

Se fosse così - e allo stato attuale delle indagini è quanto mai opportuno sottolineare il se - sarebbe l’ennesimo tentativo di trasformare un conflitto territoriale in un cruento scontro etnico.

Dopo Bruxelles, MarsigliaTolosaCopenhagen, e prima ancora, IstanbulBuenos AiresRoma dove ebrei sono stati uccisi o feriti in quanto tali, non perché israeliani o palesemente filo-israeliani (nessun aggressore si è mai occupato di controllare il passaporto delle vittime o di sapere che cosa pensavano del conflitto in corso).

La svolta non è di oggi, sia chiaro, sarebbe falso ricorrere subito al gioco delle parti per cui l’estrema destra sionista, religiosa, nazionalista e colonialista in nome del testo biblico, è l’accusata principale di ogni male, quindi anche della deriva “razzista” presa dall’estremismo islamista.

La svolta in senso etnico, per cui ogni “ebreo” è finito nel mirino in quanto tale risale agli anni ’70 e ’80. L’attentato alla sinagoga di Roma, all’aeroporto di Fiumicino, all’Achille Lauro dove un vecchio ebreo americano, paralitico, fu freddamente gettato in mare dai sequestratori palestinesi, avevano già l’impronta dell’odio razziale (e non ricordiamo, per evitare ulteriori polemiche, l'attività antiebraica del Gran Muftì di Gerusalemme, recentemente tornato agli onori della cronaca). Impronta che molti, ieri come oggi, fanno fatica, davvero una strana fatica, a definire razzista.

Poi la politica palestinese si rese conto dei danni che una prassi di questo tipo stava facendo alle proprie ragioni e cambiò strategia. Nemmeno Hamas - che pure ha duramente colpito anche i civili israeliani, non solo obiettivi militari - ha mai esportato il conflitto all’estero, verso le comunità ebraiche della diaspora. Al più verso turisti israeliani.

Non così altre formazioni. Tantomeno gli adepti e simpatizzanti di al Qaeda o del Califfato che hanno altre strategie e finalità. Ma anche alcuni simpatizzanti della causa palestinese che hanno emulato le aggressioni con le auto lanciate sulla folla o con i coltelli.

Così oggi potrebbe capitare a chiunque giri con una kippà in testa, oppure, banalmente, abbia un cognome ebraico. I segni ci sono: strane richieste di amicizia sui social network, lettere poco simpatiche, commenti polemici accentuati in modo incomprensibile eccetera. Niente di particolarmente preoccupante, ma segnali da non sottovalutare.

Molti, a sinistra, pensano che tutto ciò derivi dall’occupazione dei territori che conosciamo come West Bank o Cisgiordania. Sbagliato. Non esiste, laggiù, un problema palestinese. Esiste, da settant'anni, un problema israeliano.

Esiste cioè il problema dell’esistenza dello stato di Israele, come dimostrano le tre guerre finalizzate a distruggerlo e il corrispondente rifiuto arabo di farsi stato indipendente sia in ottemperanza della risoluzione ONU del 1947, che suggeriva la spartizione del territorio, sia nel periodo tra la guerra del ’48 e quella del ’67 quando Israele non, e sottolineo “non”, occupava né la West Bank né Gaza. 

Ma, come ha evidenziato da poco Erri De Luca, uomo dal curriculum di sinistra a prova di contestazioni, la Palestina non è occupata da 70 anni, ma, semplicemente, non è mai stata indipendente; cioè è sempre stata occupata oppure non ha mai pensato se stessa come terra occupata fino a tempi recenti. E se indubbiamente ci hanno vissuto gli arabi, altrettanto ci sono sempre stati anche gli ebrei che, da sempre, hanno vissuto in quel territorio come minoranza soggetta a secolari discriminazioni.

Il rifiuto di farsi stato quando le circostanze lo permettevano dice chiaramente che affermare se stessi come stato indipendente significava automaticamente riconoscere all’altro lo stesso diritto. Questo è alla base di tutto: una infinita diatriba non sulle colonie (che sarebbe comunque ora di fermare e anche di abbandonare per facilitare una qualche soluzione di compromesso), ma sull'esistenza stessa di Israele. Che è evidente nelle parole (e nello statuto) di Hamas, non certo nel pragmatismo di Abu Mazen (che però non ha il coraggio di indire nuove elezioni perché sa come finirebbero).

Quindi? Quindi la soluzione non c'è, perché nemmeno la soluzione "a due stati", seppellita ormai da decenni di reciproci diktat, potrebbe risolvere davvero il problema. Quello cui si può ambire è, al più, un fragile compromesso di coabitazione a denti stretti, di malcelato odio reciproco in attesa che future generazioni, sperabilmente portate più ad amarsi che a odiarsi se i cattivi maestri saranno messi nelle condizioni di non nuocere, non seppelliscano l'idea di "nemico". Magari per trovare quelle di vicino, collaboratore, convivente, amico o magari, perché no?, anche amante.

Leggete le righe di David Grossman su Repubblica (L’umanità nascosta negli occhi dei siriani così Israele scopre il volto del nemico): "Faremmo bene a guardare i volti degli uomini e delle donne siriani in fuga dall’inferno del loro Paese. Senza dimenticare gli anni di guerra e di odio fra noi dovremmo guardarli bene perché a un tratto (...) in quei volti balena qualcosa di familiare. Magari è il nostro ricordo di profughi, insito in noi, o di una vulnerabilità umana che conosciamo bene, legata alla consapevolezza della fragilità dell’esistenza e all’orrore di chi si sente mancare la terra sotto i piedi. Per un istante rimaniamo stupiti di aver combattuto per decenni contro queste persone. E poi arriva la domanda più importante: cos’altro stiamo perdendo e cos’altro non vediamo con la testa bloccata in profondità nella gogna?".

Ora aspettiamo che una voce altrettanto accorata si levi nel mondo islamico, fra i tanti che indiscutibilmente praticano la pacificazione e la tolleranza.

Nel frattempo però la questione si evolve - già da tempo in Francia, oggi forse in Italia - in direzione dello scontro etnico. Che, se non viene fermato subito, finirà male. E, presumibilmente, non per gli ebrei.

Perché l'Occidente - che solo l'altro ieri sterminò gli ebrei senza battere ciglio - oggi manifesta "alcuni problemucci" (è un eufemismo, casomai non si fosse capito) di intolleranza verso gli islamici. Che finiranno nel mirino come "nemici" se l'esportazione del conflitto dovesse proseguire, anche più di quanto l'atavica intolleranza occidentale non abbia già messo in pratica finora.

Chiedete a Orbàn. O a Salvini o a Marine Le Pen.

 

Foto: Giulio Bernardi/Flickr

 

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