• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tempo Libero > Musica e Spettacoli > E. M.: chi può vivere 300 anni con un nome solo?

E. M.: chi può vivere 300 anni con un nome solo?

Prima rappresentazione a Venezia di Věc Makropulos di Leoš Janáček.

Per una volta tanto sarà il caso di cominciare dal fondo e registrare il successo che un’opera difficile come Věc Makropulos ha riscosso nelle rappresentazioni al Teatro La Fenice di Venezia.

Con un linguaggio musicale del ‘900, fortemente attuale, affascinante e difficile, Leoš Janáček ci ha fatto vibrare e trepidare in una riflessione su un tema immortale: l’eterna giovinezza. Prima rappresentazione veneziana, la produzione ha scatenato lunghi minuti di applausi grazie ad un cast vocale impeccabile e ad una regia elegante, suggestiva ed intrigante.

Il libretto, anch’esso di Janáček , è tratto dalla commedia omonima di Karel Čapek, cui il compositore aveva assistito a Praga e per la quale fin da subito aveva pensato ad una realizzazione per il teatro musicale. La prima stesura viene terminata nello stesso 1923, le due successive nel 1925 e il 18 dicembre 1926 viene data la prima rappresentazione al Teatro Nazionale di Brno.

Per capire l’opera occorre conoscerne l’intreccio e i sopratitoli (Studio GR Venezia), indispensabili, offrono un’eccellente traduzione.

È la storia di una donna, cantante d’opera dalla voce ammaliante e presenza insuperabile, che da 337 anni vive grazie all’elisir di lunga vita che il padre, Hieronymus Makropulos, aveva preparato su commissione del re Rodolfo II, ma che il re, diffidente, mai assunse.

La vicenda parte dalla diatriba giudiziaria per un’eredità, la causa Gregor-Prus e sarà proprio lei, Emilia Marty, la figlia dell’alchimista, a fornire gli elementi per dirimere la questione, in quanto vissuta in generazioni precedenti sotto altre identità, ma lo farà con l’unico e segreto scopo di rientrare in possesso della “cosa” Makropulos, la formula ancora custodita fra i documenti dell’eredità e che ella vorrebbe assumere per rinnovarne l’effetto.

Il grande Robert Carsen decide di presentarci questo enigmatico garbuglio fin dall’ouverture nel corso della quale Elina Makropulos, giovane ignara, bevuta la diabolica pozione, continua a vivere tre secoli sotto l’identità di Ellian McGregor, Eugenia Montez  fino ad essere la Emilia Marty degli anni ’20: mirabile cantante dal cuore di pietra che riceve fiori alla fine di ogni recita cambiando ruoli di volta in volta sul palcoscenico così come nella vita.

Efficacissime le scene di Radu Boruzescu, eleganti e fedelmente contestualizzati al periodo i costumi di Miruna Boruzescu, anche le luci di Peter Van Praet creano ambientazioni suggestive nei momenti più carichi di pathos e contribuiscono all’esito dello spettacolo: nutrono il canale visivo rinforzando quello uditivo travolto da una musica inquietante sulla quale si sovrappone un canto frantumato che porta con sé la naturalezza di chi conversa.

Mentre nell’ouverture Robert Carsen ha voluto dare l’idea dello scorrere del tempo, alla prima scena ecco presente il telefono, elemento incontrovertibilmente moderno che ci catapulta nei tempi in cui ha luogo lo sviluppo della vicenda, gli anni ’20 ed enfatizza quel che c’è stato prima, mentre musica e libretto con un raffinato gioco di rimandi ed indizi stuzzicano l’ascoltatore ad interrogarsi sull’identità della protagonista e sui misteri della vicenda.

La seconda scena è un esempio di teatro nel teatro e ci conduce a ritroso nel tempo. Emilia Marty, la nostra spregiudicata cantante è sul trono di Turandot, adorata dai suoi ammiratori che snobba con gelido disprezzo, ma eccola al battito delle castagnette rivivere un’identità di cinquant'anni prima come Eugenia Montez, la zingara indiavolata che fa infiammare il palcoscenico di luce rossa e evoca ricordi focosi in Hauk, conte decaduto oramai vegliardo, giunto a porgere fiori a Emilia Marty.

È col vecchio conte che E.M. si rivela facendosi riconoscere nell’identità gitana e, congedati i presenti, Emilia intesse un lungo dialogo con Prus nel corso del quale egli svela di aver trovato la busta sigillata. Emilia Marty è disposta a pagare per tornarne in possesso, mentre comincia a sentire il gelo della morte che si sta avvicinando. L’atto si chiude sulla promessa di Prus di consegnarle la busta preziosa la notte stessa.

Il terzo atto consta sostanzialmente di un interrogatorio pressante in cui Emilia Marty, riluttante, confessa tutto il suo passato e si conclude con uno straziante monologo intervallato da frammenti del Padre Nostro in lingua greca. La musica è permeata di disperazione e morte che lentamente ma inesorabilmente si impadroniscono della protagonista che rinuncia ai poteri dell’infernale intruglio.

Offrirà la formula alla giovane Krista, figlia dell’archivista Vìtek, che distruggerà il foglio. Sipario lento. Quanto umana è quest’ultima scena che ci sfiora con dita leggere, arrese e disperate e porta alle lacrime l’animo di chi ascolta!

L’orchestra del teatro come sempre dà il meglio di sé, così come il coro diretto dal maestro Claudio Marino Moretti. Sul podio il maestro Gabriele Ferro.

La versatile Ángeles Blancas Gulín è la splendida Emilia Marty, l’avevamo già apprezzata qui a Venezia l’anno scorso come sensuale Lou nella Lou Salomé di Sinopoli. Possiede un’intensità e una duttilità nella voce che le hanno permesso di superare brillantemente le difficoltà della partitura e una magnifica presenza di donna.

Tutti i cantanti sono perfettamente nel ruolo: Judita Nagyová, Krista; Martin Bárta come Jaroslav Prus; Emilio Casari, Janek; Ladislav Elgr, Albert Gregor; Andreas Jäggi nel curioso ruolo di Hauk; Enric Martínez- Castignani, Kolenatý; Leonardo Cortellazzi, caratterista, come Vítek. Vale la pena ricordare anche i ruoli minori ricoperti da Leona Pelešková (cameriera e donna delle pulizie) e William Corrò (macchinista).

Il programma di sala risulta come sempre ricco ed esaustivo. In esso Michele Girardi, autore del saggio “Una lunga vita sarebbe terribile, terribile…e dopo…?” , dedica queste pagine con affetto e gratitudine alla memoria di Maria Giovanna Miggiani, che per chi scrive è stata maestra e amica.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares