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Dilemma Parmalat: francesi sì o francesi no?

Prosegue da settimane la delicata vicenda Parmalat, una delle poche multinazionali dell'alimentare italiano (ottimamente risanata dopo la cura Bondi, che dalla gestione occulta e familiare di Tanzi l'ha resa una robusta public company con 1,4 miliardi di euro in cassa e utili nel 2010 in crescita del 68% rispetto al 2009) che è stata acquistata al 29% dal gruppo francese Lactalis (che possiede già i marchi Galbani, Vallelata e Invernizzi).

La scalata dei francesi è avvenuta in maniera rapida e ha spiazzato i soci italiani. In una settimana Lactalis ha rallestrato azioni Parmalat perfezionando l'acquisto dai tre fondi Zenit, Skagen e MacKenzie, con il supporto del Credite Agricole (già proprietario diCariparma) e stipulando un contratto di equity swap con la bancaSogen (in sostanza la Sogen compra azioni che poi rigira a Lactalis ad una data prefissata ed a un prezzo stabilito, una sorta di acquisto a termine per conto terzi).
 
Un capitalismo di rapina, o semplicemente un'abilità nel fare acquisizioni che ha battuto la concorrenza.
 
Il governo cerca di mettere un freno all'assalto di Lactalis con il decreto anti-scalata a difesa delle imprese italiane "in settori strategicamente rilevanti", tra cui l'agroalimentare.
 
L'unico effetto concreto per ora sarà il rinvio dell'assemblea dei soci di Parmalat, inzialmente prevista per il 12-13-14 aprile, probabilmente al 30 giugno, data in cui si deciderà per l'approvazione del bilancio ed il rinnovo del board.
 
Ciò consentirebbe di guadagnare tempo per la presentazione della famosa "cordata italiana", auspicata dal ministro dello Sviluppo Romani, che dovrebbe costituirsi per fronteggiare la spumeggiante avanzata francese, con l'aiuto di Mediobanca e di altri advisor finanziari.
 
Al momento però si naviga in cattive acque e nessuna grossa impresa italiana sembra in grado di competere nell'operazione.
 
L'unico nome che è circolato più volte negli ambienti finanziari è quello del gruppo Ferrero, il re della Nutella e dell'Ovetto Kinder, che vanta una delle aziende più in forma del sistema economico nazionale (fatturato consolidato di 6,34 miliardi, margine industriale lordo di oltre un miliardo, redditività industriale pari al 15% dei ricavi, capitale netto per oltre 2,3 miliardi) ma che al momento sembra indeciso ad avventurarsi nell'acquisto.
 
Nel frattempo Unicredit si tira fuori e rinuncia a presentarsi nella lista insieme a Intesa San Paolo che parteciperà con il suo 2,67% alla prossima assemblea dei soci.
 
La manovra del governo mira anche a rafforzare i poteri amministrativi della Consob qualora non si determino solo semplici scambi di pacchetti azionari ma si delineassero passaggi di controllo di una società.
Secondo il presidente Giuseppe Vegas il sistema di imprese italiano è strutturalmente "più aggredibile", anche se "la Consob non deve difendere la nazionalità delle imprese ma garantire il risparmio".
 
Decisamente contraria all'intervento del governo la Confindustria, che lamenta la già scarsa attrattività dell'Italia verso gli investimenti esteri, un limite grave del nostro paese poiché "le multinazionali contribuiscono a diffondere nuove tecnologie, alla crescita del Pil e dell'occupazione".
 
Secondo l'associazione degli imprenditori, dunque, cambiare le regole del gioco in corso di partita non serve, mentre si auspica"l'eliminazione delle barriere protezionistiche per far competere le aziende italiane all'estero ed il rafforzamento del nostro sistema di imprese per favorirne la crescita dimensionale, l'aggregazione e le patrimonializzazioni, nell'ambito delle corrette regole di mercato".
 
Nel frattempo Parmalat comincia a parlare francese, Lactalis rischia di vincere la partita e l'Italia aspetta di trovare un pool di imprenditori all'altezza della sfida.
Vi terremo aggiornati.
 

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