Dead show must go on: recensione di "L’anima buona di Lucignolo"
Lo spazio dello Start viene diviso in tre ambienti: all’ingresso, la stanza dell’Antefatto, campeggia un lavoro digitale “a forma di quadro” dell’artista Chiara Coccorese su tema collodiano, con al centro una conturbante fata turchina; più sopra, nella stanza del “Secondo me”, una minigalleria di illustrazioni a firma di Bruna Troise scompone la vicenda, che poi nell’Eden del falegname, in cui fa da padrone lo splendido albero di cartapesta scolpito da Claudio Cuomo, sarà ricostruita. Ovvero, in scena, a cui gli spettatori arrivano scortati dalla maestria di Pietro Tammaro, nei panni dell'Omino di burro, un lacero banditore da fiera.
Apre Mario Zinno - Lucignolo - con un dolente cantato: invoca quel ciuchino cui tutta la messinscena è votata, ripreso da una testa d’asino divisa in due, i cui profili rappresentano Pinocchio e lo stesso Lucignolo. Ma sono pretesti per un crossover sul capolavoro collodiano: e questo circo alla deriva, “tra un binario morto e una discarica di gabbiani monchi”, ci canta, in realtà, di un’antica arte morente. Uno strepitoso Saccoia, vecchio direttore mezzo svitato (quasi uscito dalla penna di Carroll) orchestra l’elogio di uno spettacolo agonizzante ma che, come da proverbio, deve ancora continuare. Chissà perché, viene da chiedere.
La risposta è nella magistrale reinvenzione linguistica della pièce. Al di là dei brani musicali, eseguiti dal vivo da Luca Toller, CarmineBrachi, Francesco Gallo, tutta la narrazione è praticamente cantata, in un vorticoso groviglio di calembour, strofe asimmetriche, gaffe sapienti e grammelot. Bellissima la sequenza della “resurrezione” di Lucignolo che, a metà strada nella trasformazione da asino a uomo, storpia le parole di cui, però, restituisce pienamente il senso. Il lavoro sulla parola prescinde il significato, affidando al suono la missione di trasmettere. Anche il gioco di luci è riuscitissimo: tra atmosfere felliniane e chiariscuri, nasconde e mostra secondo le necessità di un copione che, robusto e affidato ad un grosso lavoro degli interpreti, è anche fine scrittura di scena.
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