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Dati, geopolitica e potere

 

Il controllo sui dati, e l’abilità nell’utilizzarli e comprenderli, è e sarà sempre più un fattore chiave per modificare gli assetti geopolitici e di potere economico tra Stati, e tra Stati e multinazionali. «Presto», scrive Francesco Vitali in un saggio intitolato The Economic Geopolitcs of Data and the Future of Dominance, «saremo in grado di classificare le nazioni secondo tre categorie: quelle che saranno in grado di esercitare il controllo attraverso assistenza esterna, quelle dotate di strumenti di controllo autonomi e quelle in grado di progredire dal controllo alla previsione e alla manipolazione di comportamenti individuali e sociali».

Come? Organizzando, tramite algoritmi sempre più sofisticati, il mare di informazioni su noi stessi presente in rete. Non c’è bisogno di complicate operazioni di spionaggio, né che i ‘controllori dei dati’ chiedano agli utenti il permesso di accedere ai dettagli sulle loro vite: oggi «è possibile estrarre conoscenze implicite da e sulle persone senza che sia necessario ottenerne il consenso esplicito», scrive Vitali. Basta intrecciare le nostre ricerche su Google, le transazioni finanziarie online, le condivisioni sui social network, le email, le foto, i video, le parole che pubblichiamo. Nell’era del «big data», ciò significa maneggiare quantità di informazioni nell’ordine di centinaia di exabyte al mese di traffico Ip globale, a cui aggiungere le centinaia di terabyte prodotte da ogni azienda con oltre mille dipendenti e il fiume di dati provenienti dalle videocamere di sorveglianza, dalle tecnologie di geolocalizzazione in ogni smartphone e da quelle di controllo a uso militare (i droni, per esempio, ma anche gli insetti-spia).

Il risultato, scrive Vitali, è che «ogni singolo individuo è diventato analizzabile sia rispetto alla sua unicità sia nei suoi comportamenti sociali in aggregazioni virtuali (i social network) o reali (come durante le proteste) con altri individui». E se il terreno di conquista oggi è la predizione (non dove siamo, ma dove saremo tra cinque minuti; non cosa abbiamo acquistato, ma cosa acquisteremo; non cosa abbiamo retwittato, ma cosa è più probabile retwitteremo), oggi l’incrocio di tutte queste informazioni conduce alla «de-anonimizzazione» del soggetto in rete. «L’era delle identità multiple è finita», secondo Vitali. «La fase della storia di Internet in cui una persona poteva utilizzare diversi nickname a seconda del contesto è finita».

Ora che «è possibile determinare l’umore di una persona in qualunque momento», che di ogni utente in rete si può creare un profilo dettagliato abbastanza da conoscerne le preferenze sessuali e i network di influenza, e che tutto questo si può fare perfino per chi non sia presente sui social media (basta analizzare i pezzi di informazione condivisi da chi, invece, c’è), non stupisce che una versione sinistra e al contempo accogliente del motto «la conoscenza è potere» sia quantomai attuale.

È la dittatura degli algoritmi che si salda a quella di chi detiene gli strumenti necessari a raccogliere e dare senso alla massa sterminata di dati prodotta volontariamente dagli utenti su loro stessi. Non a caso, Vitali dettaglia i massicci investimenti dei colossi del web (da Facebook a Microsoft e Google) per raffinarli e potenziarli.

Le conseguenze geopolitiche si vedono nella emergente categorizzazione tripartita proposta dall’autore all’inizio del paper. Nella prima, quella dei Paesi in grado di controllare dati locali tramite servizi esterni, sono compresi i paesi protagonisti della «primavera araba», che hanno fatto ricorso a blocchi e censure temporanee (anche totali) della rete, e che per la sorveglianza dei loro cittadini hanno utilizzato software di provenienza straniera (in particolare Occidentale, come più volte denunciato anche su questo blog).

Nella seconda ci sono invece le democrazie Occidentali, capaci di produrre da loro stessi gli strumenti di controllo della rete utilizzati (per esempio, in funzione di tutela del diritto d’autore o di contrasto della pedo-pornografia e del gioco d’azzardo). Ma anche la Cina, con il suo ‘Great Firewall’ (che secondo Foreign Policy non è né ‘great’ né ‘firewall’).

Alla terza, da ultimo, appartengono gli Stati Uniti, da tempo impegnati nel tentativo di costruire tecniche per formulare analisi predittive in tempo reale dei comportamenti in rete. Nonostante i risultati siano attualmente modesti, Vitali sostiene che questo conferisca agli USA un primato tecnologico sugli altri Stati che consente di alterare l’equilibrio geopolitico «secondo parametri totalmente sconosciuti ai politici e ai geografi del XIX e del XX secolo». Non esattamente una buona notizia, dato che mentre con una mano Obama e Hillary Clinton promuovono la retorica del libero web, con l’altra utilizzano il primato tecnologico per «rendere possibili operazioni che fanno sembrare gli incubi di George Orwell delle banali storielle del passato».

(Grazie ad Andrea Glorioso per la segnalazione; Fonte immagine: qui)

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