• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Scienza e Tecnologia > Dal Web 2.0 all’Enterprise 2.0

Dal Web 2.0 all’Enterprise 2.0

«Tutti lo cercano, tutti lo vogliono»

Potrebbe iniziare così il tormentone 2009 dell’hit parade delle tecnologie più desiderate del momento nel mondo imprenditoriale. Mi riferisco al web 2.0, questo misterioso oggetto del desiderio di cui tutti parlano ma dal quale pochi, al momento, hanno saputo trarre beneficio. Il problema è che prima di riuscire a utilizzare in modo profittevole qualcosa, bisognerebbe conoscere bene “che cosa” quel qualcosa possa realmente dare e perché ma, soprattutto, di cosa stiamo realmente parlando.

In genere, la prima cosa che viene in mente quando si parla di Web 2.0 sono i blog. In seconda battuta Wikipedia e, a seguire, i social network più gettonati del momento: MySpace, Facebook, LinkedIn, per menzionarne alcuni. Altri poi determinano se un sito è web 2.0 dalla grafica che utilizza: se vengono utilizzati effetti speciali con trasparenze, riflessi e amenità varie, se sono utilizzati colori sgargianti e caratteri dallo stile moderno e futuristico, allora siamo sicuramente in un sito web 2.0. Chi invece ha approfondito più l’aspetto tecnologico, vi parlerà di mashup, di AJAX, di REST, di RSS Feed e altre mille sigle e termini dal caratteristico sapore informatico, di quelli che piacciono tanto agli addetti ai lavori.

Sotto un certo punto di vista è tutto vero, ma se vi aspettate che tutto ciò vi permetta di capire come utilizzare il web 2.0 per fare business, allora ho paura che avrete una cocente delusione. Il punto è che il web 2.0 non è una tecnologia, anche se poi di fatto si basa su determinate tecnologie facilitanti e soprattutto su un modo specifico di usarle. Dietro ad esse tuttavia, gli ingredienti sono sempre gli stessi: un po’ di spazio disco (tanto, se i contenuti sono anche di natura multimediale), un po’ di capacità di elaborazione (tanta, se volete gestire molti servizi contemporaneamente), un bel cocktail di software capace di interoperare utilizzando standard aperti e protocolli più o meno consolidati. Nulla di fantascientifico, insomma. Ma allora cos’è il web 2.0 e, soprattutto, cosa ci possiamo fare?

Web 2.0, questo conosciuto

Quando Tim Berners-Lee inventò il web nel lontano 1989, il suo obiettivo era quello di fornire un semplice meccanismo per condividere contenuti in rete e collegarli logicamente fra loro in modo da permettere ai ricercatori di tutto il mondo di muoversi più agevolmente nel mare magnum delle pubblicazioni scientifiche e in generale di tutta la documentazione prodotta dalla comunità scientifica. Il web, infatti, è nato presso il CERN di Ginevra, dove Tim lavorava in qualità di fisico.
Per quanto possa sembrare assurdo, la chiave di volta del web era semplicemente la possibilità di collegare fra loro due contenuti in modo monodirezionale, ovvero senza bisogno che gli autori di entrambi i testi si mettessero d’accordo. I collegamenti ipertestuali, infatti, erano già conosciuti da tempo ma erano bidirezionali e richiedevano di operare su entrambi i contenuti che si volevano collegare fra loro. Inoltre i precursori del web erano proprietari e quindi soggetti a restrizioni in termini di diritti e licenze. Il web invece fu reso disponibile a chiunque senza limitazioni nel 1993 dal CERN e questo fu sicuramente uno dei fattori chiave del suo successo. Integrando Internet con un semplice meccanismo che permettesse a chiunque di collegarsi a un altro contenuto dal proprio e aggiungendo in seguito un’interfaccia per poter navigare facilmente da un contenuto all’altro, ovvero un browser, Tim diede inizio alla una nuova era dell’informazione globale.

Il web nacque quindi per permettere di condividere informazione e, nella mente di Tim, avrebbe dovuto essere il primo passo verso un sistema planetario di collaborazione e cogenerazione dei contenuti. Tutto ciò non avvenne subito. Presto le aziende e i fornitori tradizionali di informazione si resero conto del potenziale rappresentato dalla Rete e vi sbarcarono in massa. All’inizio fu un bagno di sangue, perché non ci si rese conto che non bastava creare una domanda attraverso un canale nuovo e innovativo: bisognava anche soddisfarla, e questo richiedeva capacità e investimenti nei processi, nell’organizzazione e in tutta una serie di aspetti che con il web in sé non avevano nulla a che vedere. Ma questa è storia. Al giorno d’oggi quasi tutte le aziende utilizzano la Rete come uno dei tanti canali di comunicazione e vendita, anche se non sempre il principale o il più importante.

Oggi il web è un sistema complesso e dinamico in continua evoluzione
e, come in fondo aveva previsto Tim, una parte di questa evoluzione si è indirizzata verso il mondo della collaborazione e della generazione di contenuti in rete. Perché tutto ciò fosse possibile, tuttavia, si è dovuto aspettare che la rete entrasse nelle nostre case e lo facesse con collegamenti a banda larga, ovvero capaci di trasferire a basso costo grandi quantità di dati. Così infatti, come il web si è sviluppato nel mondo della ricerca e non dell’impresa, così il web 2.0 è nato in quello anarchico e destrutturato della comunità dei navigatori, non in quello ben organizzato e regolamentato del business. Così adesso possiamo iniziare a dire cos’è il web 2.0 e quindi iniziare a comprendere qual è il giusto modo di affrontarlo: il web 2.0 è un fenomeno sociale, non tecnologico.

Ma c’è di più: non solo è un fenomeno sociale, ma non è nulla di nuovo. Il desiderio di generare contenuti, condividerli, lavorare insieme, è sempre esistito, solo che non si era mai potuto realizzare appieno a causa della mancanza di mezzi adeguati. Il web 2.0 permette di dare pieno impulso a questo desiderio nascosto che covava sotto le ceneri e a renderlo qualcosa di reale, di tangibile. Bisogna infatti essere coscienti che quando usiamo il termine "virtuale" con riferimento alla rete, ci riferiamo solo al fatto che tutto ciò che sta in rete non ha sostanza materiale, non è cioè percepibile sul piano tattile. Questo tuttavia non deve trarre in inganno: non c’è nulla di virtuale nella Rete. La Rete è forse una delle realtà più tangibili della nostra epoca perché dietro ogni testo, immagine, video, contenuto in genere, dietro ogni servizio e ogni applicazione, ci stanno delle persone, persone assolutamente reali. La Rete ha, e non potrebbe essere altrimenti, tutte le idiosincrasie che ha il mondo reale, perché la Rete è fatta di persone reali: la Rete siamo noi. Solo comprendendo molto bene questo principio potremo capire perché certe iniziative in Rete hanno successo mentre altre sono destinate a fallire. È come quando si deve disegnare una nuova campagna di marketing: se non si fa un’analisi seria di quello che sarà il target della campagna, le probabilità di avere successo saranno scarse.
Protagonismo e reputazione

Abbiamo detto che il web 2.0 è un fenomeno sociale, un fenomeno che spinge persone che non si conoscono fisicamente a interagire fra loro creando di fatto, in modo naturale e inconsapevole quanto cosciente e volontario, contenuti. Sono contenuti gli articoli di Wikipedia in cui individui di tutto il mondo collaborano in un sistema debolmente moderato e ai limiti di una sorta di anarchia sostenibile per produrre materiale che ha una qualità impensabile per il modo in cui viene prodotto, dimostrando così il vero potere dell’intelligenza collettiva; sono contenuti le sequele infinite di messaggi e repliche, battute e controbattute semiserie che vengono prodotte ogni giorno in reti sociali come Facebook o nelle miriadi di sistemi di messaggistica esistenti in rete. Alcuni sono effimeri, altri lasciano una traccia più duratura in Rete, altri ancora si propagano come veri e propri tsunami attraverso un processo di replicazione che spesso degenera in un meccanismo autoreferenziale ai limiti della psicosi. E naturalmente sono contenuti i curricula di LinkedIn, i video di YouTube, le recensioni di Shelfari o di GoodReads. Si potrebbe andare avanti così per ore, ma non avrebbe senso, anche perché questo non è un articolo di sociologia, ma inteso a dare un’indicazione chiara alle imprese su come trarre vantaggio dal web 2.0. Ma quella è la conclusione, l’obiettivo. Per raggiungere un obiettivo bisogna conoscere i fondamentali: non si manda una freccia al centro di un bersaglio se non si sa usare un arco.

Cosa c’è quindi alle spalle del web 2.0? Quali sono i fattori di stimolo che portano le persone ad utilizzare la Rete in questo modo? Diciamo che è una coincidenza, ma quel “2” dopo la parola web contiene in sé la risposta, sebbene nasca semplicemente dalla nomenclatura che in informatica identifica i rilasci delle varie applicazioni con una sequenza numerica.

Due infatti sono i fattori chiave: protagonismo e reputazione. E sempre due sono i punti di vista da considerare: quello individuale e quello della collettività.
Consideriamo prima il protagonismo. Uso questo termine con un’accezione positiva, non negativa, ovvero il desiderio di farsi conoscere e di far conoscere le proprie capacità, le proprie opere. Si può dire che alla base ci sia un profondo bisogno di affetto nel senso più ampio del termine. Negli ultimi decenni questa società ci ha resi sempre più soli, ha modificato la struttura della famiglia, ha quasi cancellato le piccole comunità, ci ha chiesto di essere sempre più competitivi e, producendo sempre di più, ha reso più difficile al singolo e alla singola opera, di spiccare. I meccanismi che rendono una persona (o un’opera) famosa non sono più necessariamente legati alla qualità della stessa, ma sono spesso il risultato di operazioni mediatiche eseguite con precisione chirurgica e legate a precisi interessi economici. I grandi scienziati come Leonardo o i grandi filosofi come Bacone avrebbero difficoltà oggi a risaltare come succedeva un tempo, in questo mondo di reality e talk show.



Poi è arrivata la Rete. Pian piano la gente se n’è appropriata, ne ha scoperto le potenzialità, ha capito che permetteva loro di conoscere e farsi conoscere e, soprattutto, di pubblicare qualsiasi cosa senza dover passare attraverso i canali tradizionali, quel clero laico rappresentato dagli editori e dai gestori delle emittenti radiotelevisive che per secoli, soprattutto alla fine del Secondo Millennio, aveva rappresentato l’unico tramite per la visibilità a livello di opinione pubblica. Il singolo è così diventato protagonista, lo «YOU» della copertina del «Time», il signor Nessuno, il blogger della Domenica. E così, da una Rete di alias e nomignoli alieni dietro ai quali si poteva nascondere chiunque, siamo passati a una Rete di nomi e cognomi, foto e curricula, diari e storie quotidiane raccontate con dovizia di particolari, in una sorta di amnesia collettiva dei timori sulla violazione della nostra privacy, quella privacy a cui tanto teniamo ma che fa a pugni con il nostro più ampio desiderio di affetto.

Protagonismo: questo sono io, questo è quello che so fare, che faccio, addirittura che sto facendo. E siamo arrivati a Facebook. Poi l’estetica, la grafica accattivante, la geolocalizzazione tramite mappe e cartine di ogni tipo, ma questa è la crosta. Importante, non sia mai, ma solo la crosta. Sotto la crosta il cuore è quello caldo di chi ha una passione, un interesse, uno scopo. Sia esso trovare amici o qualcuno con cui passare la serata e magari qualcos’altro, sia quello di lavorare insieme per un obiettivo comune, fare volontariato, migliorare il mondo. È web 2.0 GalaxyZoo, dove persone che di astronomia sanno, alcuni molto poco, altri decisamente tanto pur essendo per lo più dilettanti, lavorano insieme per classificare le galassie “catturate” dal progetto Sloan Digital Sky Survey. Nessuna grafica accattivante in quel sito, nessun gadget speciale o colori esplosivi, sebbene le foto da sole fanno decisamente sognare mondi lontani e saghe alla Star Trek; un sito decisamente old-style nell’aspetto, eppure uno dei migliori esempi, assieme a Wikipedia, del valore che si può creare in Rete facendo leva sul desiderio di collaborare, di fare qualcosa insieme.

Reputazione: perché non basta il parlate pure male di me purché ne parliate. La gente vuole vedersi riconoscere il proprio lavoro, essere in qualche modo confermati dagli altri nel proprio essere bravi, buoni, onesti o quant’altro sia per noi positivo. È quella che in psicologia si chiama la “carezza”. Vogliamo il riconoscimento degli altri, un riconoscimento tangibile che abbia la sua visibilità. Ecco allora che se scrivo una recensione, gli altri possono dare un voto; se scrivo un articolo o giro un filmato, gli altri lo possono commentare; se collaboro in maniera fattiva, mi viene dato un ruolo, una sorta di grado, sia esso quello di moderatore o quello di amministratore, poco importa: è comunque un riconoscimento.

Mentre leggete queste righe, provate a pensare già come tutti questi concetti vi possano suonare familiari all’interno di un’azienda. Teneteli presenti: metteteli da parte. Ci serviranno.

Enterprise 2.0: la minaccia?

E veniamo finalmente all’Enterprise 2.0. Fermo restando che il problema a questo punto non è tanto come posso utilizzare un blog o se mi serve realizzare un wiki in azienda, vediamo di capire quali potrebbero essere i vantaggi nell’introdurre i principi del web 2.0 in un’azienda e, soprattutto, quali i rischi.
Incominciamo da quest’ultimi. Un’azienda non è una democrazia: non funzionerebbe. Non sto dicendo che le aziende siano tiranniche e che sfruttino i loro dipendenti, ci mancherebbe! Il punto è che un’azienda è più simile a una nave: ci deve essere un comandante e una gerarchia, regole e procedure, ruoli e compiti da svolgere. Senza tutto ciò un’azienda non potrebbe operare efficacemente e con efficienza. Questo tuttavia è l’antitesi di tutto ciò che sta alla base del web 2.0, almeno in prima approssimazione. Se in un’azienda le comunicazioni sono controllate e regolamentate, sia buona parte di quelle interne, sia soprattutto quelle rivolte verso l’esterno, ad esempio, nel web 2.0 tutti possono interagire con tutti al di fuori di qualsiasi schema e funzione. È evidente che questo rischia di essere disruttivo per un’impresa.

Inoltre realizzare il web 2.0 all’interno dell’azienda è una cosa, realizzarlo fra l’azienda e il mondo esterno un’altra. Nel primo caso sono comunque in un ambiente controllato nel quale sto creando coscientemente delle crepe mirate ad ottenere comunque un vantaggio in termini di capitalizzazione dell’intelligenza collettiva, nel secondo mi espongo verso un mondo che non conosco e che non controllo e quindi devo farlo a partire da altri presupposti, il più importante dei quali è forse quello che afferma che in ogni caso «c’è più competenza fuori dalla mia azienda che al mio interno», anche se sono leader di mercato.

Un altro consiglio è quello di non partire mai dalla tecnologia, ma dalle necessità del business. Prendiamo un blog: ci posso fare infinite cose. In fondo un blog è solo un modo per pubblicare facilmente contenuti senza dover conoscere linguaggi specifici o usare interfacce complesse. Ma poi? A cosa mi potrà servire? Nella blogsfera, in Rete, ci sono blog di tutti i tipi: da quello intimo e personale - una sorta di diario aperto - al reportage di guerra, a quello impegnato sul piano politico e sociale e, ovviamente e immancabilmente, a quello autoreferenziale e tecnologico.

E in un’azienda?

Due punti di vista, abbiamo detto. Per il singolo un blog è un modo di farsi conoscere come esperto, di poter esprimere idee che possono avere un valore per l’azienda e quindi essergli riconosciute anche tangibilmente. Per la comunità un blog può essere una risorsa per risparmiare tempo, per crescere, imparare, risolvere problemi, rendere più efficienti i processi. In fondo chi sta leggendo questo articolo lo fa perché spera che gli possa dare qualche utile spunto nell’affrontare il dilemma «web 2.0 sì o no»? Lo stesso vale per un blog. Entrare nella intranet aziendale, poter cercare e trovare facilmente articoli scritti da colleghi più esperti che hanno affrontato prima di noi un certo problema, può far risparmiare ore se non giorni di lavoro. Chi scrive, lo fa per protagonismo e perché l’azienda non solo non lo ostacola in questo, ma lo facilita, addirittura lo motiva. Chi legge lo fa perché comunque riuscire a raggiungere un obiettivo vuol dire riceverne indietro un ritorno, per cui qualsiasi strumento possa aiutare è il benvenuto. In pratica l’esperienza di chi scrive diventa valore per chi legge ed entrambi ne hanno un beneficio.

Ovviamente questo avviene se in azienda si lavora per obiettivi e non a ore. E siamo di nuovo al nodo della questione. Non si può diventare veramente un’impresa 2.0 se non si cambia cultura, e cambiare non vuol dire introdurre una piattaforma blog o wiki o installare nuovi strumenti di collaborazione. Cambiare vuol dire rivedere processi, ruoli, flussi operativi, la struttura stessa dell’impresa. Solo allora si potrà pensare di sfruttare un wiki, ad esempio, per consolidare la manualistica interna in una forma estremamente accessibile, o le reti sociali per crearsi una sorta di help desk personale a 360° che permetta facilmente di fruire in ogni settore aziendale dell’esperienza accumulata in altre divisioni. E questa è la parte facile della partita. Il gioco diventa serio quando ci si porrà il problema di usare il web 2.0 verso l’esterno, con i propri clienti, i fornitori, la società in genere, e quindi, visto dal punto di vista aziendale, il mercato. Allora sarà necessario costruire prima un business case molto robusto, capire bene i meccanismi sociali che poi sono quelli che in fondo già conosciamo, se conosciamo gli esseri umani, e solo dopo porsi il problema di come realizzarlo. In fondo nelle aziende questo modo di ragionare esiste già: chi fa marketing, chi si occupa di pubblicità, non ragiona solo in termini di qualità del prodotto promozionale, sia esso una brochure o uno spot televisivo; ragiona in termini di psicologia delle masse, di leve psicologiche, di fattori sociali. Ebbene, chi si occuperà di web 2.0 dovrà fare lo stesso.

Come posso sostenere la mia immagine attraverso le reti sociali? Quali rischi corro e qual è il modo corretto di fare blogging in rete per presentare i miei prodotti? Come posso sfruttare i contenuti prodotti dai miei stessi clienti per migliorare la mia offerta? Come posso legare le carte fedeltà al ranking che hanno i clienti fidelizzati all’interno della comunità virtuale? Queste sono solo alcune delle domande alle quali bisogna essere in grado di rispondere se si vuole utilizzare seriamente questi strumenti. Quali servizi offrire e quali tecnologie utilizzare, è di conseguenza. Come realizzare il sito, poi, come vestirlo, diventa un di cui.
Alla fin fine, il web 2.0 è soprattutto simbolo di un cambiamento senza fine, che richiede che il change management diventi la prassi e non un evento periodico ogni tot anni. Essere Enterprise 2.0 vuol dire di fatto diventare Enterprise Beta, e in quanto all’evitare gli errori, ben venga, purché si sia compreso che parliamo solo di quelli più eclatanti: lo sbagliare è parte integrante del cambiamento e può sicuramente essere gestito in modo da limitare al minimo i danni e addirittura da trasformarlo in un’occasione di crescita. Se si accetta tutto ciò, allora, e solo allora, si è davvero pronti.

Benvenuti nel Nuovo Mondo.

Commenti all'articolo

  • Di alilomapa (---.---.---.127) 15 gennaio 2009 12:31

    Complimenti per l’articolo. E’ chiaro e non cade nella trappola del "troppo tecnologico" oppure del "troppo sociologico". Un perfetto mix che inquadra esattamente la tematica senza preferenze tecnologiche e sociologiche di sorta.

    Leggendolo ci si rende conto di quanto potenziale il web 2.0 potrebbe rappresentare non solo per le "enterprise" con la E maiuscola (...quelle grosse per intenderci) ma soprattutto per le Piccole e Medie Imprese italiane che, se imparassero a conoscere la rete, ne potrebbero trarre un enorme beneficio!
    Sappiamo che la rete porta disintermediazione, democratizzazione della produzione e della distribuzione.... un mix di potenzialità esplosiva per le PMI italiane che sono abilissime nel "saper fare" e forse un pò meno nel "saper vendere".....

    • Di Dario de Judicibus (---.---.---.187) 15 gennaio 2009 12:49

      Vero. Purtroppo perché le PMI possano usare efficacemente questi strumenti devono prima entrare in una cultura di RETE e di COLLABORAZIONE ( e non sto parlando di tecnologia ma di strategie aziendali). Purtroppo le PMI italiane non hanno spesso questa vision e continuano a scannarsi fra loro sul territorio locale perdendo così l’opportunità di fare massa critica per essere competitive a livello globale. Troppe aziende familiari, senza cultura manageriale.

    • Di Francesco Piccinini (---.---.---.58) 15 gennaio 2009 17:03
      Francesco Piccinini

      Lo sguardo rivolto al "particulare", come diceva guicciardini, è il male italiano. Un limite alla crescita, putroppo e l’altro limite è anche la scarsa propensione a rischiare.

  • Di Rocco Pellegrini (---.---.---.97) 15 gennaio 2009 16:03
    Rocco Pellegrini

    Secondo me cosa sia il web 2.0 è abbastanza chiaro e, per essere sintetici, potrei ricordare questo:
    web 1.0 Readweb (l’epoca elle vetrine, delle redazioni che usavano la rete come i giornali di carta, dei portali)
    web 2.0 ReadWriteWeb ( l’epoca della interazione e della creazine delle comunità virtuali, del web partecipativo)
    Tim O’Reilly propone questi esempi per allargare la vista tra web 1.0 e 2.0

    Web 1.0   Web 2.0 DoubleClick —> Google AdSense Ofoto —> Flickr Akamai —> BitTorrent mp3.com —> Napster Britannica Online —> Wikipedia personal websites —> blogging evite —> upcoming.org and EVDB domain name speculation —> search engine optimization page views —> cost per click screen scraping —> web services
      publishing —> participation content management systems —> wikis directories (taxonomy) —> tagging ("folksonomy") stickiness —> syndication
    Sempre da O’Reilly viene, l’articolo più chiaro e bello che io abbia mai letto sull’argomento.


    • Di Dario de Judicibus (---.---.---.193) 15 gennaio 2009 23:39

      L’articolo di O’Reilly dà un’idea di cosa sia il web 2.0 ma non di cosa sia l’enterprise 2.0. La visione di O’Reilly non affronta ancora le problematiche di evoluzione delle aziende da sistema strutturato a rete collaborativa. Inoltre la sua visione è ancora troppo "americana" e, come molti americani, vede la globalizzazione come un’estensione della cultura made in USA piuttosto che una rete eterogenea di diversità che riescono a cooperare. Ad esempio, l’approccio di O’Reilly male si sposa con il sistema delle PMI italiane.

  • Di maurizio carena (---.---.---.230) 15 gennaio 2009 21:40

     argomentato e schematizzato. bellisimo articolo.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares