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La sfida alle PMI italiane

Le Piccole e Medie Imprese.

In Europa un’azienda viene classificata come Media Impresa (MI) se ha meno di 250 dipendenti e un fatturato annuo che non superi 50 milioni di euro oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro. Se l’impresa ha meno di 50 dipendenti e un fatturato annuo o, in alternativa, un totale di bilancio inferiore a 10 milioni di euro, si dice che è una Piccola Impresa (PI). Se poi il numero dei dipendenti è inferiore a 10 e il fatturato o il bilancio sono inferiori a 2 milioni di euro annui, l’impresa è detta Micro. Le imprese medie, piccole e micro formano nel loro complesso le cosiddette PMI.

Le PMI possono essere classificate in tre categorie, in termini di relazioni con altre imprese: autonome, ovvero completamente indipendenti o con una o più partecipazioni di minoranza — ciascuna inferiore al 25% — con altre imprese; associate, se questa partecipazione arriva fino al 50% ma non oltre; collegate, se la partecipazione è maggiore del 50%.
«La nuova definizione di PMI»
Guida dell’utente e modello di dichiarazione
Pubblicazioni della Direzione Generale per le Imprese
e l’Industria della Commissione Europea
2003, IT NB-60-04-773-IT

Il mercato imprenditoriale italiano è estremamente polverizzato. Le PMI (vedi riquadro a lato) sono infatti oltre tre milioni e ottocentomila (CGIA 2008), pari al 99,9% del totale delle imprese italiane, e danno lavoro a oltre 12 milioni di persone, pari all’81,3% del totale nazionale. Circa il 95,4% delle PMI italiane sono in realtà micro imprese, avendo meno di 9 addetti impiegati (Onida 2004).

Questo scenario non è tuttavia omogeneo sul territorio nazionale. Da un punto di vista geografico, infatti, l’Italia è praticamente spaccata in due: da una parte il Sud con le Isole e il Centro che rappresentano rispettivamente il 14,2% e il 13,1% delle imprese italiane, dall’altra il Nord-Est e il Nord-ovest che rappresentano rispettivamente il 44,1% e il 28,5% del totale.

Da un punto di vista organizzativo, l’81,9% delle PMI è a conduzione familiare (G&T 2005), ovvero, non solo è posseduta da una singola famiglia, ma la gestione organizzativa della stessa è demandata a membri della famiglia stessa, relegando al più a ruoli secondari alcuni dirigenti esterni alla famiglia. Un aspetto importante di questa struttura è che oltre l’80% dei soggetti che controllano un’impresa a conduzione familiare ha un’età superiore ai 50 anni e che il 53% ha più di 60 anni (Banca d’Italia 2004).

Questa grande realtà italiana, tuttavia, è un colosso con i piedi d’argilla. Per comprendere i punti di debolezza delle PMI italiane dobbiamo concentrarci su un certo numero di fattori:

l’organizzazione
le strategie di business
la spesa tecnologica
la spesa nella ricerca e sviluppo


L’organizzazione


Come abbiamo detto, la maggior parte delle PMI è a conduzione familiare. Questa caratteristica rende molto forte l’azienda fintanto che ha un mercato limitato e conosciuto, come può esserlo quello regionale o persino nazionale. Se l’azienda tuttavia ha successo, cresce in dimensioni e fatturato e si trova a confrontarsi sul mercato globale, iniziano a sorgere dei problemi. La mancanza di processi aziendali ben definiti e di una struttura manageriale che sia abilitata a prendere decisioni indipendentemente dalla proprietà fa sì che l’azienda non riesca a stare al passo con la crescente domanda né a essere competitiva con realtà di altri Paesi che invece si sono organizzate differentemente.

Nel migliore dei casi, infatti, i vari ruoli dirigenziali, come il Direttore Commerciale, quello del Marketing e quello della Produzione, sono ricoperti da esponenti della famiglia; nel peggiore non ci sono o sono accentrati in una sola figura: il padrone del vapore. Purtroppo competere a certi livelli richiede una professionalità che non si inventa e non basta il mestiere del piccolo imprenditore che si è fatto da sé per supplire a tale carenza. Inoltre, una volta che è stato assegnato un incarico a un manager professionista, bisogna anche potergli dare la possibilità di esercitare tale ruolo in piena o comunque significativa autonomia. La professionalità e soprattutto la conoscenza di metodologie valide è fondamentale oggi per condurre un’azienda moderna.

Purtroppo sono poche le imprese a conduzione familiare che hanno il coraggio di convertirsi ad azienda manageriale in Italia, mantenendo solo il controllo finanziario dell’impresa e al più definendo missione e strategia senza entrare in merito della loro attuazione. Questo è il primo dei punti deboli delle nostre imprese, spesso il peccato originale dal quale altri debolezze hanno origine.
Le strategie di business

Se poi ci andiamo a confrontare con le strategie, la situazione è davvero preoccupante. Molte imprese italiane, per motivi storici, sono raggruppate sul territorio in distretti industriali. Così gran parte di chi produce lenti e occhiali sta nel nord del Triveneto, chi lavora la seta nel Comasco, chi produce cucine ancora nel Triveneto e nella Lombardia, diverse industrie alimentari nell’Emilia-Romagna, il tessile così come la carta tessuto (carta igienica, fazzolettini, ecc...) nella zona di Prato, le ceramiche nel Lazio, la concia nella Campania e via dicendo.
Molte di queste imprese sono portate a vedere nel vicino di casa il proprio concorrente, senza rendersi conto che oggi la partita la si gioca su un campo ben più grande. La visione di molte PMI è ancora troppo legata al territorio italiano, spesso addirittura solo a un pugno di regioni. In un pianeta in cui i Paesi emergenti portano le loro imprese a competere sul mercato globale, l’Italia è ancora rimasta all’epoca dei Comuni, chiusa in un provincialismo feroce e contradaiolo in cui il nemico è quello che abita dall’altra parte della strada.
Così le nostre imprese non riescono a sviluppare quelle dimensioni, quella massa critica, che consentirebbe loro di affrontare ben altre sfide. Il che, fintanto che nessuno ci viene a sfrugugliare in casa nostra, può anche funzionare, ma il giorno in cui una grossa multinazionale straniera dovesse metter piede in Italia e iniziare a giocare con le sue regole invece che con le nostre, le possibilità di reazione diventerebbero sostanzialmente nulle.
C’è anche un altro problema: molte micro imprese sono nate come terzisti di altre aziende e spesso si sono attrezzate per soddisfare un’esigenza specifica, ovvero a non differenziare la produzione e la clientela. Nel momento in cui l’azienda mandataria decide di delocalizzare la produzione o anche semplicemente di modificarla, queste micro imprese non riescono a rivendersi sul mercato, anche perché avevano investito, spesso indebitandosi, in macchinari atti a una specifica produzione non più richiesta. Un esempio è stato il distretto tessile di Prato.
La spesa tecnologica

Alcuni dati, in ordine sparso, relativi alle PMI italiane:


8 PMI su 10 sono connesse alla Rete;
solo una PMI su dieci utilizza la Rete come canale di ventita;
per il 50% il catalogo in linea è solo informativo e non finalizzato al commercio elettronico;
almeno la metà dei cataloghi presenti in rete non riporta i prezzi né le condizioni di acquisto;
solo un’azienda su dieci sa cosa significa o ha anche sentito parlare di un marketplace;
sono pochissime quelle che hanno sviluppato collaborazioni B2B basate sulla rete;
solo una su cinque conosce e ha preso in considerazione l’e-procurement;
il 47% degli addetti lavora su un personal computer;
quasi tutte hanno almeno un indirizzo di posta elettronica, ma la maggior parte usa ancora il fax per gli ordini;
il 91% delle PMI lamenta di non avere incentivi pubblici per l’uso di tecnologie digitali;
l’86,3% usa Internet, il 66,4% un antivirus e il 52,9% ha almeno un server.

Il vero problema è che nel migliore dei casi l’informatica viene vista come un facilitatore di processi amministrativi e al massimo, più raramente, produttivi. L’utilizzo della tecnologia come volano per il business è sostanzialmente sconosciuto in Italia, a volte anche da parte di alcune grandi imprese. Anche quelle che fanno progetti tecnologici, li vedono essenzialmente come tali e non riescono a calcolare il ritorno dell’investimento anche perché non hanno definito un modello di business e indicatori misurabili per i vari processi (KPI).

Sul commercio elettronico, poi, la situazione è semplicemente disastrosa. La maggior parte dei siti italiani sono assolutamente artigianali, senza un filo logico e decisamente discutibili sul piano estetico ed ergonomico. Sui contenuti, poi, siamo ancora al tradizionale sito di vetrina. Spesso i cataloghi, quando ci sono, sono semplici panoramiche di fotografie con pochissime informazioni e senza alcun prezzo di riferimento. Siamo rimasti al negozietto che ancora si guarda bene dal dire il prezzo al telefono se lo chiedi. È evidente che chiunque voglia comprare un prodotto in rete, fra un sito che ti mette un francobollo di immagine e due righe, affermando che l’eventuale preventivo sarà fornito a richiesta scrivendo a un indirizzo di posta elettronica, e il sito di commercio elettronico con un catalogo ricco, promozioni, meccanismi di cross e up-selling, prezzi, sconti e tutte le informazioni possibili su costi e modalità di spedizione oltre che dotato di varie tipologie di pagamento, sceglierà quest’ultimo anche se si trova in Germania o in Francia. La maggior parte dei siti di commercio elettronico nei vari Paesi di Eurolandia ha infatti quantomeno la versione in inglese, se non addirittura quella in italiano, e i costi di spedizione sono spesso comparabili con quelli interni al nostro Paese.

C’è infine una considerazione che riguarda i prezzi: dato che ormai la maggior parte dei Paesi europei ha adottato l’euro, che tutti hanno la stessa IVA, che tutti i prodotti o quasi sono dotati di garanzia europea e che nella maggior parte dei casi non ci sono spese doganali, il consumatore ha la possibilità di comparare i prezzi a parità di articolo, e la maggior parte dei siti francesi e tedeschi hanno spesso prezzi inferiori del 20 fino al 30% di quelli dei siti italiani. Non è poco e rende l’acquisto più appetibile persino quando le spese o i tempi di spedizione dovessero essere maggiori. Se il prodotto è poi il tipico prodotto al consumo, ovvero un modello ben definito per il quale non ha importanza poterlo vedere o toccare o provare prima, come molti prodotti tecnologici o per la casa, non c’è storia. Per assurdo, a volte è più conveniente comprare un prodotto italiano su un sito francese che su uno nostrano.
La spesa nella ricerca e sviluppo

La situazione che riguarda gli investimenti nella ricerca è, se possibile, ancora più disastrosa. Pochissime PMI hanno collegamenti con il mondo della Ricerca, ancora meno investono in Ricerca e Sviluppo. Inoltre molte aziende italiane non hanno processi per l’identificazione di brevetti a livello europeo o mondiale. La cosa non deve comunque stupire perché nel nostro Paese esiste una cultura antiscientifica, o quantomeno del primato dell’Umanesimo sulla Scienza, molto forte, che trae le sue origini da una parte dal Crocianesimo, dall’altra da un visione cattolico integralista che vede nella Scienza un antagonista piuttosto che un complemento alla religione. Basti pensare a come tuttora sia avversata la Legge (e dico Legge e non Teoria) di Darwin.
Questa riluttanza a investire nella ricerca è anche legata a un altro aspetto tipico della cultura italiana, un sentimento di cinismo misto a fatalismo che porta a vedere in tutte le idee innovative un aspetto visionario da ostracizzare: il principio per cui il nostro Paese è diverso da tutti gli altri e quello che altrove è norma da noi non sarà mai possibile, salvo poi assumere un atteggiamento assolutamente esterofilo che sminuisce qualsiasi parto nostrano per esaltare l’altrui operato. A tutto ciò nel Meridione si aggiunge anche una buona dose di fatalismo e pretesa che ogni problema sia risolto da qualcun altro, che tutto ci sia dovuto, che ogni garanzia venga data, che tutto sia un diritto, salvo poi non assumersi mai alcuna responsabilità e di conseguenza non proporre mai alcuna iniziativa. In fondo l’imprenditoria italiana, così come la politica nostrana, è specchio di una cultura che permea l’intero Paese a tutti i livelli, in tutti i ceti e persino in tutte le fazioni, dall’estrema destra all’estrema sinistra, seppure presentandosi in modi molto differenti. Il succo resta tuttavia lo stesso: siamo un Paese vecchio, vecchio nelmodo di pensare, incapace di sognare, di mettersi in gioco, di rischiare.

Così, se a livello nazionale non si comprende l’importanza della ricerca pura e a livello di opinione pubblica si alimentano preoccupazioni spesso in modo strumentale, facendo cadere il Paese nella Sindrome da Frankenstein, a livello imprenditoriale non si fa alcun investimento serio nella ricerca applicata, limitandosi nel migliore dei casi a uno sviluppo evolutivo dell’esistente attraverso piccoli passi e altrettanto piccoli cambiamenti.

Ci si lamenta che governi e regioni non stanziano fondi dell’imprese, ma poi non si ha la capacità di sfruttare i finanziamenti europei che spesso restano inutilizzati, tanto che prima o poi l’Europa finirà per ridurli al nostro Paese, visto che non ne facciamo uso o quasi, anche perché molti bandi europei richiedono la collaborazione fra imprese di vari Paesi e le nostre imprese fanno fatica persino a collaborare fra loro.
Come uscire dalla crisi

La verità è che la crisi del Sistema Italia è una crisi strutturale. Il problema non è tecnologico e neppure economico, sebbene sia la tecnologia che i finanziamenti siano importanti facilitatori del cambiamento. Il primo problema in assoluto è culturale. La ricetta è semplice da esporre, difficile da realizzare a meno che molti imprenditori non cambino testa o che, in alternativa, molte aziende non cambino imprenditori.

La prima cosa da fare in assoluto è trasformare almeno tutte le Medie Imprese che siano a conduzione familiare, se non anche molte delle Piccole, in aziende manageriali a tutti gli effetti, dove la famiglia che le possiede si limiti a gestire gli aspetti finanziari e le strategie a lungo termine, quali acquisizioni e alleanze. La struttura organizzativa dovrebbe essere a matrice con ampia delega sia ai manager che agli specialisti, ognuno all’interno della propria aria di competenza. Queste persone devono sentire l’azienda come loro e devono sentirsi coinvolti in prima persona nei successi come nei fallimenti. Se l’azienda ha successo, questo deve in parte riflettersi economicamente anche sui dipendenti che tuttavia devono essere disposti, in caso di crisi, a fare sacrifici mirati e pianificati per riportarla in auge. Comune responsabilità, comuni oneri e onori.

La seconda cosa è definire dei processi chiari e documentati, non tanto per avere questa o quella certificazione ma per essere sicuri di controllare l’intera filiera. I vari ruoli devono essere ben definiti, così come gli esiti dei vari processi, il tutto sfruttando al massimo sistemi automatici di pianificazione e controllo per ridurre i rischi e aumentare la reattività ai cambiamenti esterni all’impresa. Tutto ciò che può essere automatizzato va automatizzato, in modo da utilizzare le persone per i lavori davvero di concetto, là dove l’intelligenza e la competenza umana può fare la differenza. L’azienda deve comprendere che il suo vero capitale non sono le macchine, ma le persone e la conoscenza che c’è in loro. L’essere umano deve tornare al centro di un’impresa in cui le macchine devono svolgere il lavoro di routine, mentre uomini e donne devono generare in continuazione nuove opportunità di crescita. Il tutto in un sistema in continua evoluzione in cui il cambiamento sia la norma e non l’eccezione.

La terza cosa è definire il proprio posizionamento strategico sul mercato, attraverso una strategia di competizione e collaborazione dinamica che non si fossilizzi in schemi a lungo termine. La reattività ai cambiamenti del mercato e la flessibilità devono essere l’elemento portante della strategia, la business intelligence e il performance management gli strumenti per attuarla. Inoltre è importante differenziare sia l’offerta che le fonti di rifornimento, in modo da riuscire a mantenere buone prestazioni anche se determinati settori dovessero entrare in crisi. È importante capire che la differenza non la fa il prodotto, ma la conoscenza che sta alle sue spalle, conoscenza che può essere usata in molti modi diversi e su vari settori merceologici. È fondamentale inoltre cessare di essere solo aziend epure di produzione, ma saper fornire allo stesso tempo sia prodotti che servizi a valore aggiunto.

La quarta cosa è quella di scorporare tutti i processi non chiave dell’azienda ed esternalizzarli o metterli a fattor comune fra imprese dello stesso territorio. È fondamentale creare una massa critica capace di far competere il Paese sul mercato mondiale. Per far questo bisogna capire che collaborare sui processi ausiliari, come la logistica, il consumo di energia e di materie prime, persino la distribuzione in alcuni casi, non altera necessariamente gli equilibri nella competizione locale, quella sul territorio, ma rafforza tutte le aziende del territorio rispetto all’esterno, alla concorrenza di aziende straniere. Se dieci aziende che fabbricano tessuti e che per decenni si son fatte la guerra a vicenda si consorziassero per quello che riguarda la fornitura di energia elettrica per negoziare un prezzo migliore o per sfruttare in modo più intelligente la disponibilità di energia, ne ricaverebbero solo un beneficio pur continuando a competere fra loro sul mercato nazionale. Le stesse aziende, su quello globale, potrebbero invece sostenere un marchio territoriale che permetterebbe a tutte loro di estendere il proprio business anche in altri Paesi, dove la concorrenza sarebbe di ben altro livello.

La quinta cosa da fare è creare un legame forte con la ricerca e magari sviluppare collaborazioni nel campo della ricerca e sviluppo anche con altre aziende. Anche qui, collaborare e competere allo stesso tempo non è una contraddizione in termini ma una realtà già collaudata in molti settori industriali in vari paesi del mondo. Ricerca vuol dire tuttavia inventiva, creatività, e quindi anche rischio. Non si fa ricerca facendo piccole variazioni a un prodotto preesistente. La si fa pensando in grande e realizzando in piccolo: grandi idee, piccoli prototipi per convalidarle, e via di nuovo fino a consolidare un nuovo prodotto.

Un gruppo di aziende che sappiano fare massa critica, pur mantenendo ognuna la sua autonomia, sono più forti sul mercato e hanno maggiore visibilità a livello mondiale, maggiore capacità di contrattazione sia con i fornitori che con le banche per eventuali fiananziamenti; sono in grado di supportare meglio le ondate periodiche di crisi che colpiscono ormai la nostra economia; possono soddisfare una domanda di maggiori dimensioni e più articolata che la singola impresa non sarebbe in grado di cogliere.

Una grande impresa è una roccia ed è molto robusta, ma spesso è anche troppo pesante e ha un’inerzia troppo grande per poter essere davvero innovativa. Una piccola azienda è d’altra parte troppo leggera e rischia di esser foglia al vento al primo refolo di crisi. Una rete di piccole e medie aziende, invece, ha la capacità di catturare un’ampia fetta di mercato e allo stesso tempo di resistere bene alle ondate anche di grosse dimensioni, dato che ogni nodo aiuta gli altri a reggere.
Quella quindi che a volte potrebbe essere pensata come la più grande debolezza del nostro sistema economico, ovvero l’estrema polverizzazione del mondo imprenditoriale, potrebbe essere in realtà la sua più grande forza, a condizione tuttavia che le PMI italiane imparino a fare rete invece di continuare con una cultura contradaiola e autolesionista. L’innovazione non è nella tecnologia, ma nelle menti delle persone. Tuttavia le idee da sole non bastano e senza tecnologia molte invenzioni non avrebbero mai potuto essere realizzate. Saper, da una parte dare valore alle persone, stimolando la loro capacità di innovazione e sostenendo i loro sogni invece di scioglierli nell’acido del cinismo, dall’altra utilizzare in modo intelligente e consapevole tutti gli strumenti che la tecnologia ci può dare, ricordando tuttavia che siamo noi a dover controllare lei e non viceversa, può trasformare la rete delle PMI italiane in un potente traino per l’economia del Paese su scala mondiale, facendo anche da volano a tutti quegli altri aspetti che caratterizzano un Paese civile e moderno, quale la salvaguardia dell’ambiente, la valorizzazione dei beni ambientali e culturali, lo sviluppo delle Arti e delle Scienze, una maggiore offerta di impegno civile e volontariato. Un Paese ricco, infatti, se non è egoista, può fare della sua ricchezza un grande valore sociale da reinvestire in sostenibilità e solidarietà.

 

Commenti all'articolo

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.156) 7 febbraio 2009 15:56
    Damiano Mazzotti

    si, le piccole e medie imprese hanno molti difetti e molti pregi: se l’Italia non è collassata economicamente il merito è solo di queste imprese che sono più flessibili e dinamiche e in momenti di crisi sono più adattabili... L’italia è il paese che ha più piccole e medie imprese e più liberi professionisti al mondo...

    E’ grazie a tutti loro e non alle banche o ai politici se stiamo ancora a galla... Ma se non molliamo queste bancari e questi politici non so dove andremo a finire..

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