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Dahomey, la voce dell’usurpazione

Tiene l’Orsetto d’oro stretto nel pugno, Mati Diop, regista premiata alla Berlinale col docufilm Dahomey che è una percossa non solo al colonialismo Ottocentesco, ma a quel neocolonialismo che continua a soggiogare la madre Africa ai capricci lucrosi degli imperatori d’Europa. 

Che si chiamano British Petroleum o Total oppure Veolia, Bolloré e la ‘aerospace security’ Thales. Volti vecchi e nuovi di antiche ruberie. Quella degli uomini, innanzitutto, prima di quella delle cose che stanno sulla terra e sotto. Perché l’antico regno Dahomey, che sorgeva quattro secoli or sono nel territorio dell’attuale Benin, fornì dal 1700 a metà ‘800 muscoli e cuore alle colonie americane attraverso la tratta di schiavi, coadiuvata da regnanti locali. Un prodromo dei governi-fantoccio che per tutto il secolo scorso le ex potenze imperiali, britannica, francese, tedesca e con qualche scampolo italiana, hanno promosso e protetto a vantaggio dei propri eterni interessi economici. Alla faccia della vita delle genti locali. La pellicola documenta l’evento della restituzione da parte del governo di Parigi di ventisei artefatti storici del Regno di Dahomey sottratti nella fase coloniale francese su quei territori. Ventisei a fronte di oltre settemila opere trafugate. Una goccia nell’Oceano. Un pensiero critico direbbe: una tardiva riparazione dal quasi beffardo sapore di revisione del passato usurpatore. Se nel lungometraggio le statue s’interrogano sulla propria collocazione storico-geografica, esse stimolano i giovani del Benin a riflettere– come fa la regista stessa – su questo passo attuale, non sentendosi soddisfatti del presente.

Soprattutto se la maschera della ‘riparazione coloniale’ attraverso il ritorno a casa delle statue, avviene all’ombra della mai morta Francąfrique di degaulliana memoria, un sostantivo che indicava il colonialismo di ritorno praticato dal Secondo dopoguerra e tuttora ampiamente presente. Un’invadenza geopolitica e geoeconomica, proseguita dall’Eliseo anche dopo la dipartita del generale-presidente. Così Giscard d’Estaing sostituì il Segretariato degli interessi francesi in Africa con una struttura denominata ‘Cellula africana’. L’intento non mutava: favorire gli interessi energetici di Parigi e ogni possibile affare economico legato all’estrazione di materie prime. L’orientamento proseguì col socialista Mitterand e il neogollista Chirac, fino alla nuova destra di Sarkozy. Veli pietosi, e altrettanto criminosi, si possono stendere sulle gestioni di Hollande e dell’attuale premier politique Emmanuel Macron, con gli interventi in Mali, nella Repubblica Centroafricana. Dove l’alibi di combattere con proprie truppe la presenza jihadista nei territori, copre le strategie d’accaparramento di uranio, cobalto, litio e ogni sorta di terre rare accanto alla proiezione mondiale dell’Armée française. Dalla tratta degli schiavi a quella dei metalli in un gorgo senza freni. Questo il documentario non lo dice esplicitamente. Però le teste pensanti dell’attuale gioventù della diaspora – com’è l’autrice figlia d’un musicista senegalese trapiantato nella Ville Lumière dei nostri giorni - e di coetanei ancor più giovani l’hanno ben chiaro. I ragazzi del Benin e di tanto continente sub-sahariano, spesso costretto alle fughe da quell’inferno come i protagonisti dell’Io capitano, altra pellicola di denuncia, sanno e giustamente parlano senza tenere la testa sotto la sabbia.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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