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Cosa si ottiene querelando Twitter

Immaginiamo che Paola Ferrari decida di andare fino in fondo, e querelare Twitter per gli insulti ricevuti in svariati ‘cinguettii’ dei suoi utenti. Immaginiamo anche che ci sia un giudice disposto a darle ragione. E che dunque l’azienda Twitter venga condannata a un maxi risarcimento nei confronti della conduttrice della Rai.

Per evitare che, stabilito il precedente, chiunque si ritenga insultato sporga querela con successo, il social network si vedrebbe costretto ad applicare dei filtri preventivi per impedire ad alcune parole di comparire del tutto tra i post dei suoi utenti. Risultato? Gli utenti troverebbero dei modi per aggirare la censura storpiando le parole, producendo memi sui modi in cui la censura è stata effettivamente aggirata, e aumentando con ogni probabilità – e per istinto di rivalsa, oltre che semplice trollaggio – il volume e l’intensità di «insulti modificati».

Ma nel web di Paola Ferrari ci sarebbe anche l’obbligo di rettifica previsto a più riprese e poi sempre finora accantonato nei progetti del legislatore italiano: quindi servirebbe un qualche modo per obbligare Twitter e le altre piattaforme dove oggi si esprime liberamente il proprio pensiero a imporre la rettifica a ogni opinione sgradita, compresi di certo tutti gli insulti storpiati e diventati virali per via dell’effetto Streisand.

Twitter, ma anche YouTube, Facebook, Google+, WordPress e tutte le piattaforme analoghe, si troverebbero dunque in una doppia tenaglia: da un lato, la censura preventiva per evitare di finire responsabili dei miliardi di post dei loro utenti; dall’altro, assumere squadre di controllori – o incentivare in qualche forma l’autocensura e la delazione – per impedire che gli utenti possano insultare e deridere come prima, e divertendosi pure.

Non solo: nel web di Paola Ferrari non c’è posto per l’anonimato. Quindi ecco arrivare l’obbligo di iscriversi con il proprio nome e cognome. Il che equivarrebbe a rendere di fatto impossibile il whistleblowing, nonché disincentivare l’espressione di concetti ‘sensibili’, dalla sfera politica a quella della sessualità, dai problemi in famiglia a quelli con il datore di lavoro. Ricapitolando, per evitare di sentirsi diffamata da utenti che già ora sono rintracciabili e punibili con le leggi attuali, laddove ve ne siano gli estremi, la rete sociale diventerebbe un luogo pieno di filtri preventivi, censori e delatori. Oltre che di norme per la verifica dell’identità di chi pubblichi un contenuto e per smentirne l’infondatezza a prescindere dalla loro verità. In altre parole, il web 2.0 italiano diventerebbe quello cinese. E’ in Cina, infatti, che tutte queste misure sono già in atto. Ora, al netto della plausibilità giuridica e sociale di un simile scenario, spetta a tutte le Paola Ferrari d’Italia spiegare in che modo ottenere questo risultato significhi condurre «una battaglia per una informazione più civile».


LA NOTIZIA: Paola Ferrari vuole querelare Twitter

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