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Cosa fa di un calciatore un brand

L’americanizzazione del valore comunicazionale (e di valorizzazione economica) del calcio piano piano fa breccia nei nostri cuori e nelle nostre scelte consumistiche (sai che se ne fottono del cuore). Ormai non sei top, tu giocatore del ventunesimo secolo, se in allenamento non hai superato le leggi della fisica quantistica con un movimento di caviglia, o non hai indicato la strada verso l’analisi di gruppo ad un portiere giovane con una serie di finte, o non hai photoshoppato un tiro sulla traversa da 35 metri, riproducendolo in serie.

Inizia sempre più a contare l’irrealistico d’allenamento nella capacità di un calciatore di essere top of mind. I motivi sono molto semplici da spiegare: lo sharing-brand tradizionale non vale più la candela. Prima i grandi marchi (che potevano essere team o calciatori singoli) si diffondevano con le grandi vittorie (molto costose in termini di investimento-rischio), oggi le singole imprese circensi valgono molto di più sulla bilancia degli sponsor.

Un esempio banale ma che rende l’idea: dopo il 1994 la maglia che più spopolava sulle bancarelle del mondo era quella di Roberto Baggio, concentrato di classe ed efficacia messo in mostra al Mondiale americano. Dopo arrivò Ronaldo, che è stato il primo passo verso quello che sta accadendo oggi, in quanto ad un valore calcistico indiscutibile, sapeva unire l’espressione “artistica” a sé stante. Oggi la bilancia si è quasi completamente rovesciata. Vanno forte i calciatori che giocano al “fallo anche tu” nei 20 secondi di youtube (e le dinamiche di viralizzazione ovviamente sono fondamentali in tutto il discorso).

Se qualcuno di voi oggi va a Timor Est per capire quale maglietta da calcio indossano i ragazzini per strada, pensate che troverà quella di Afellay o quella di Milito?

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