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CGIL, profondo rosso.

C’è qualcosa di emblematico nello schiaffo preso dalla CGIL sull’ultimo referendum – quello su lavoro e cittadinanza – che va ben oltre l’occasione persa.

È il simbolo plastico di una disfatta più profonda, che investe l’identità stessa del sindacato. Il primo sindacato d’Italia, un tempo baluardo delle lotte operaie, oggi si ritrova come Don Falcuccio: in mutande, con una mano davanti e l’altra dietro. L’immagine è cruda, ma efficace. Perché non si tratta di una battuta d’arresto momentanea: è la fotografia impietosa di una crisi strutturale, culturale, e soprattutto morale.

I numeri parlano chiaro: iscritti in calo costante, partecipazione ai minimi storici, sfiducia crescente.

Quello che sta venendo meno è il senso di appartenenza, la funzione stessa del sindacato. La CGIL – e con lei buona parte del sindacalismo confederale – ha smarrito la propria ragion d’essere: rappresentare i lavoratori. Non i congressi, non gli equilibri interni, non le poltrone nei comitati tecnici o nei consigli d’amministrazione. Ma i LAVORATORI. Quelli veri, che oggi faticano ad arrivare a fine mese, che vivono sotto ricatto, che hanno perso diritti e voce e che vengono ‘rottamati’ dalla legge Fornero a 67 e più anni con quattro soldi!.

Ma la crisi della CGIL non è un caso isolato. È l’emblema del fallimento di un intero modello sindacale, burocratizzato e autoreferenziale, sempre più distante dalla realtà dei luoghi di lavoro. I funzionari parlano il linguaggio della politica politicante. Il contatto quotidiano con le vite concrete – con gli operai, i precari, gli infermieri, i fattorini, gli insegnanti – si è progressivamente dissolto. I luoghi della rappresentanza si sono trasformati in zone franche, impermeabili al cambiamento, scollegate dalla sofferenza del mondo del lavoro.

Nel frattempo, il mondo cambiava. Il lavoro diventava sempre più precario, frammentato, umiliato, sottopagato. L’Articolo 18 è diventato un ricordo, i contratti a termine una norma, la povertà lavorativa una condizione strutturale, la pensione un miraggio. E il sindacato? Assente. Quando non complice. Troppo occupato a difendere rendite, distacchi, permessi, assetti interni. Troppo intento a perpetuare carriere che nulla hanno a che vedere con la militanza. In molti casi, il sindacalismo è diventato la corsia preferenziale verso altri traguardi: politica, amministrazione, potere. A scapito della lotta. A scapito dei lavoratori.

Ecco perché oggi il sindacato – o meglio, questo sindacato – non convince più. La sua voce è flebile, le sue piazze vuote, le sue parole spente. Non rappresenta più nessuno, se non se stesso. E questo è il vero nodo: può sopravvivere un sindacato che non rappresenta i lavoratori?

La risposta è una sola: No. Non può. E non deve.

Servirebbe un rovesciamento di paradigma. Un ritorno radicale alle origini. Non alla nostalgia, ma al coraggio. Quello di stare nei luoghi del conflitto, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle scuole, nei call center, sulle piattaforme digitali. Quello di dare voce a chi non ce l’ha. Di parlare chiaro. Di rifiutare ogni commistione con il potere. Di scegliere da che parte stare, ogni giorno. Serve un sindacato di trincea, non da convegno. Un sindacato che non rincorra i partiti, ma li sfidi. Che non gestisca il presente, ma pretenda di cambiarlo.

Altrimenti il destino è segnato. Non ci sarà bisogno di sciogliere le sigle: si scioglieranno da sole, nella loro irrilevanza. E allora il problema non sarà più la crisi della CGIL, ma quella della democrazia. Perché senza rappresentanza reale, senza partecipazione, senza lotta, il lavoro diventa sfruttamento. E la società si consegna, disarmata, alla logica del meno peggio.

Ma il peggio, spesso, non ha fondo. E oggi siamo già molto vicini a toccarlo con mano.

Foto wikimedia

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