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Corpus Christi

“Non sono qui per pregare a pappagallo” e “molte persone pochi credenti” sono le frasi che si ricordano dell'inizio film: le dice il prete del riformatorio ai ragazzi là ospitati a scontare la propria punizione. Un ambiente iniziale di estrema violenza e nello stesso ambiente il film si conclude, quasi come un'auto-liberazione del giusto. L'avvenimento è definito come true story polacca, di un ragazzo che si finse prete e celebrò messe confessioni battesimi e funerali: da riformato a celebrante. Notizie dalla Polonia dicono che la cosa è realmente accaduta ma che il riformatorio non sia un fatto di realtà: potrebbe essere un'invenzione del regista che ha amato accostare all'idea di espiazione e violenza quella di salvatore di anime. Bisogna forse conoscere i mali del mondo e le sue brutture per poi elevarsi e predicare ai credenti cose di buon senso, dire ciò che più conta ai propri fedeli. Al di fuori di formule religiose e riti ripetuti “a pappagallo”, senza che nel vissuto di molti se ne ravvisi il significato.

 

E' bello pensare che al di là del confessionale ci sia qualcuno che serva per “scaricargli” le nostre brutture, un piccolo giudice che ti somministri la piccola penitenza (anche qui, giaculatorie a pappagallo), nella presunzione di ripulirsi, quasi un confidente che ti capisce avendo vissuto le tue stesse cose. Questo accade nel film ed è a tratti esilarante. Non solo un teorico, dunque, che ha studiato sui libri tanta teologia e dà assoluzioni con formule di rito. Anche il prete anziano del paesino dove il film è ambientato si confessa al nuovo venuto, credendolo davvero prete, ma è l'anziano a confessargli che “la confessione non risolve nulla”, un suo vecchio delitto è rimasto e non è rimovibile.

 

Il ragazzo finto prete dice in fondo parole di verità, riflessioni sulla vita stessa: come faccio a essere come te se non riesco neanche a gestire la mia vita (è al crocefisso che parla davanti a tutti). Andiamo là dove nessuna preghiera può giungere … non è lassù che sei, Dio, o nella chiesa, ti possiamo pregare anche in cima a una montagna e in solitudine, è tutto dentro noi. Dio come qualcosa che è in noi. Ed ancora, lo dice in un sermone soprattutto al sindaco-imprenditore di una segheria che lo chiama a officiare l'inaugurazione di una nuova ala dell'impresa: “siamo malati di avidità, vogliamo sempre di più, più soldi, abiti e auto più costosi, più persone da controllare, ci inginocchiamo (nelle chiese) senza vergogna per la nostra piccolezza, voglio essere importante, popolare, ammirato, sempre sotto i riflettori, avere di più non è abbastanza, voglio più di altri. Perdonami perché cerco chi è peggio di me, aiutami a mostrare un po' di umiltà”.

 

Questo ragazzo ha portato dell'umanità vera in chiesa, è rivelatorio su tanti aspetti della messa in scena domenicale o festaiola a cui tanti si appressano ormai per abitudine; coloro che, almeno nel film, si ritengono “città per bene, gente per bene”. Sembra aver convertito i fedeli, che cominciano a seguirlo e stimarlo, a un nuovo modo di vedere la cosa. C'è anche l'amore nella storia, non potrebbe essere altrimenti in una vita completa.

 

Niente male per una storia che sembra piccola, di paese, ma che ha avuto riconoscimenti al Toronto Film Festival ed è candidato all'Oscar come miglior film straniero. Potrebbe anche farcela.

 

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