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Conversando con Luigi Lo Cascio/Dorando Pietri

 

Un medico in più, un attore in meno. Se non ci fosse stato un paio di occhiali di riserva, se non ci fosse stata la mamma premurosa, se non ci fosse stato un pullman giornaliero da Palermo a Roma, se non ci fosse stato un autista generoso, se insomma il paio di occhiali di riserva non fossero giunti sul pullman da Palermo a Roma via mamma e autista, allora niente esame di ammissione all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico, l’Actor’s Stdio italiano. Invece un medico in meno, un attore in più: lui, Luigi Lo Cascio, il Peppino Impastatto di “I cento passi” e il Nicola di “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, il Manuelo di “Gli amici del bar Margherita” di Pupi Avati, l’Angelo Torancelli di “Miracolo a Sant’Anna” di Spike Lee, il Dorando Pietri di “Il sogno del maratoneta” di Leone Pompucci.

Lo Cascio, il suo Dorando?

“La proposta nell’aprile 2010. Di solito evito di fare cose che non sento. Devo sentirmele giuste, devo sentirmene capace. Quella la sentivo perfetta, e l’ho accettata al volo. Dorando Pietri faceva già parte della mia famiglia: come un lontano zio citato, nominato, favoleggiato, raccontato fin da quando ero un bambino”.

Come mai?

“Vengo da una famiglia che si è dedicata all’atletica leggera. A Palermo. Papà marciatore negli Anni 50, anche ai campionati italiani, ai tempi di Pino Dordoni e Abdon Pamich, e di quel Gianni Corsaro, gloria del tacco-e-punta, ingaggiato a forza di risparmi e poi morto su un motorino comprato con le paghette. Mio padre ricominciò a marciare verso i 35 anni, e ci portava allo Stadio delle Palme. Cinque figli. E tutti cominciammo a correre e saltare”.

Lei?

“Mezzofondo: 800 e 1500. Poi, però, siccome nella squadra della scuola c’era un posto libero nei salti: lungo e triplo. Gli 800 in 2 minuti, e 13,80 nel triplo. Non un fenomeno. Il fenomeno era lo zio Bruno: di atletica leggera sapeva tutto, era un’enciclopedia vivente, partecipò a ‘Lascia o raddoppia’ e vinse 5 milioni in gettoni d’oro. Divenne un eroe televisivo, si trasformò in una gloria cittadina”.

Poi?

“Mondiali ed Europei in tv, un rito. E trasferte. Bandiere tricolori che consegnavamo agli italiani prima di fare il giro d’onore, striscioni con scritto ‘ciao mamma’ o ‘brava Silvia’, ingressi vietati nel villaggio riservato agli atleti. Per me l’atletica è stata un divertimento e anche un riscatto”.

Perché?

“Sempre stato il più piccolo e il più magro. Avevo gli occhiali da miope. Insomma, ero un piccolo mostro. L’atletica mi ha aiutato a trovare fiducia e identità. Ogni volta che c’erano i Giochi della gioventù, guadagnavo dei punti. E poi è stata anche una scuola che ha inciso sul mio carattere: gli allenamenti significano costanza, dedizione, gare. Qualità e situazioni che poi ritrovi nella vita, nel lavoro”.

Per esempio?

“Le gare di triplo e lungo sono un po’ come il cinema: ti prepari per mesi e sai di giocarti tutto in tre salti, eventualmente in altri tre. Così è il cinema: aspetti tutta la giornata e poi giri la scena in un attimo. Identiche sono anche la concentrazione, la vestizione, i rituali prima della partenza o del ciak”.

E per interpretare Pietri?

“Due-tre allenamenti la settimana, a Roma, a Villa Pamphili, seguendo le tabelle di Aldo Siragusa, che aveva cominciato a fare spettacoli di piazza con me, nel gruppo Le Ascelle, e poi è diventato allenatore di atletica”.

Dorando?

“Tutti hanno in mente l’arrivo della maratona all’Olimpiade di Londra 1908. Quando sbandò, quando cadde, quando fu aiutato a rialzarsi, quando tagliò il traguardo, quando crollò a terra, quando fu squalificato, quando gli venne consegnata una coppa e, dentro, i soldi raccolti con una colletta”.

Invece?

“Non tutti sanno che era povero, di famiglia povera, e a quel tempo lo sport era riservato ai ricchi, solo loro avevano tempo libero e soldi per poterselo permettere. Dorando Pietri si ribellò non solo a al pensiero dei conservatori, che in lui vedevano l’involgarimento di un’arte nobile, ma anche dei progressisti, che identificavano lo sport nel culto del corpo. Perfino suo padre era contrario: tutto tempo rubato al lavoro, e ai soldi”.

Dunque: corridore?

“Il suo sogno era di diventare corridore, ma a pedali. Le biciclette costavano tanto, per lui troppo. Aveva una specie di cancello. Fu scoperto in una gara ciclistica, quando gli si ruppe la catena e giunse al traguardo con la bici in spalla. Dorando Pietri era un uomo ostinato e tenace, piccolo e con le gambe storte, ma ci sapeva fare. Correva con un fazzoletto da muratore in testa, dopo le gare passava con il piattino, ringraziava con eleganza, elogiava avversari e intenditori, si faceva fotografare, si autocelebrava. Si ripeteva: ‘Sono il più forte’”.

E’ diventato leggendario.

“E lui contribuì a creare la propria leggenda. Dopo la Seconda guerra mondiale un sosia si spacciava per lui: andava a Londra, Parigi, New York, accolto e ospitato e pagato. Quando i carpigiani lo seppero, tesero una trappola al sosia, lo smascherarono e lo diffidarono. Soprattutto a Carpi, Pietri era un semidio. All’Olimpiade del 1908 le notizie arrivavano con il telegrafo, lentamente, a pezzi. In un dispaccio lo avevano dato per morto. E prima della rettifica, la notizia aveva già fatto il giro del paese”.

Con Pietri si è riavvicinato alla corsa?

“Non ho auto, non ho moto. Amo andare a piedi, camminando e correndo. Mi porto magliette di scorta: entro in un bar, vado in bagno e mi cambio. Andare a piedi mi aiuta a pensare, scrivere, studiare, imparare. Sono un peripatetico. E adesso che, grazie a Dorando, sono tornato competitivo, sogno di essere invitato a qualche maratona, magari a quella di Londra. E in una mezza riuscirei, magari non proprio come successe a Dorando, anche ad arrivare in fondo”.

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