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Come le grandi imprese abbindolano i lavoratori, quando manca la sinistra

di Riccardo ACHILLI

In Basilicata è successo un fatto che ha una rilevanza ben maggiore, a mio avviso, dell’aspetto locale. I lavoratori delle imprese dell’indotto ENI dell’area estrattiva hanno manifestato congiuntamente con i propri datori di lavoro, che gli hanno pagato la giornata, per richiedere il potenziamento delle attività estrattive, aprendo i cantieri previsti dal protocollo di intesa fra Regione ed ENI del 1998 ancora chiusi (essenzialmente, pozzi esplorativi e nuove tratte di oleodotto).

Quindi, manifestando contro un “cavallo di battaglia” della sinistra locale, ostile alle attività estrattive. E tagliando completamente fuori sindacati ed associazioni di categoria, rimasti a guardare. Credo che questo evento, al di là delle implicazioni locali, debba far riflettere.

E’ noto, lo ha chiarito Marx, che nelle fasi di crisi la piccola borghesia viene “proletarizzata” dalla grande, che le scarica il peso della crisi stessa, e quindi diviene disponibile ad una alleanza con il proletariato. Tuttavia, qui a guidare il processo non sono i lavoratori, ma i datori di lavoro. Ed è questo l’elemento nuovo, e per molti versi preoccupante, ma che non può essere sottaciuto. Non stiamo parlando di mitologiche alleanze dei produttori di proudhoniana memoria, perché non parliamo di liberi lavoratori in posizione paritaria. Piuttosto, parliamo, ed è già avvenuto in fasi di profonda crisi della sinistra del nostro Paese, di una élite di lavoratori, che si autoraffigura come vicina alle ragioni dei propri padroni, che viene usata da questi ultimi per perseguire una strategia di potenziamento dello sfruttamento capitalistico delle risorse, a vantaggio proprio, ed utilizzando la precarietà, la paura per il posto di lavoro, prodotta dagli stessi padroni che gli pagano la giornata di sciopero, per gettare sulle braccia della politica famiglie terrorizzate per il proprio futuro. Che dall’accoglimento delle richieste della manifestazione di ieri riceveranno molto meno di quello che riceveranno le imprese.

Non entro nella questione ambientale, ma in quella sociale. Nel socialismo italiano vi è una componente degenerativa prodotta non dentro il corpo teorico e politico del socialismo, ma all’esterno di esso. L’assenza di una destra liberale ha prodotto, storicamente, un gregge belante di liberali in cerca di autore che, fra una destra corporativa e innervata di xenofobia ed autoritarismo, un centro cattolico e assistenzialistico ed una sinistra massimalista, ha trovato nel socialismo un possibile approdo, e lo ha sostanzialmente fatto degenerare in socio-liberalismo.

Cavallo di battaglia di questi liberali che hanno preso una stanza in affitto nel corpo del socialismo italiano (e badate bene, non parlo del socialismo liberale rosselliano, quello è ancora socialismo, ha un approccio di classe incentrato sul proletariato) è il cosiddetto “fronte dei produttori”, declinato ovviamente nell’idea, più mitologica che reale, di un medio imprenditore “illuminato” socialmente (in realtà Adriano Olivetti è rimasto solo) che contratta con i lavoratori un capitalismo umano e progressivo, ovviamente sulla base del presupposto che questo capitalismo sia “competitivo” dal lato dei fattori dell’offerta per creare le risorse da redistribuire in modo illuminato.

Schumpeterismo patologico (perché carente del requisito di base, ovvero un’ondata scientifico-tecnologica di potenziale innovazione) e produttività sono la loro legge.

Evidentemente, quando poi succedono fatti come quello di ieri in Basilicata, sono sempre pronti a dire “vedete? E’ la prova scientifica che i lavoratori stessi chiedono imprenditorialità, crescita e competizione”.

Personalmente, credo che andrebbero posti alcuni punti preliminari per un ragionamento più complessivo:

1 – come detto, fatti come quelli della Baslicata non sono ascrivibili a fronti dei produttori, ma a strumentalizzazione dei lavoratori da parte delle imprese, non preludono ad alleanze sociali stabili fra lavoro e piccola impresa, che sono sempre e solo eventi occasionali e contingenti, poiché la piccola borghesia oscillerà sempre e comunque verso la grande. Fatti come quelli di ieri sono la conseguenza della profonda crisi di propositività della sinistra politica e sindacale, che è incapace di convogliare i lavoratori su una proposta che guardi al futuro, a quando fra 20 o 30 anni le attività estrattive non ci saranno più. Privati di un modello di riferimento, i lavoratori si gettano fra le braccia dei loro datori di lavoro;

2 – la diffidenza storica degli italiani per le istituzioni e l’organizzazione, ed il loro individualismo caotico, favoriscono questi processi disgregativi nei quali la battaglia sociale si auto-organizza dal basso, spesso tramite loschi ed opportunistici intermediatori o “caudillos” e biscazzieri improvvisati di vario tipo. Il fai-da-te sociale si acuisce nelle fasi di crisi economica, quando aumenta il senso di precarietà e di povertà, allargandosi anche ad aree di ceto medio e di piccola borghesia un tempo benestante, favorendo la formazione di movimenti politici orizzontali, che propongono un interclassismo intriso di rancore per le classi dirigenti (rancore perché ampi pezzi del consenso elettorale di questi movimenti avrebbero voluto ascendere al livello delle classi dirigenti, ed oggi la fine di quel sogno si trasforma in un livoroso giustizialismo verso comportamenti corruttivi o di malversazione molto ampiamente tollerati, ed addirittura emulati, nella fase “rampante” della crescita selvaggia che poi produce la bolla che a sua volta genera la crisi).

Questo fai-da-te produce una voglia di partecipazione diretta, che di per sè è un valore positivo, in assoluto. tuttavia, esercitato al di fuori del suo ambito proprio, ovvero senza un filtro che faccia sintesi del fermento partecipativo diventa sterile cacofonia, che finisce per fare da contraltare a leaderismi mediatici assolutamente nemici della partecipazione stessa. Perché le organizzazioni intermedie di rappresentanza finiscono nel calderone di quella “Kasta” che è oggetto del rancore dei sogni infranti, buttando via, con lo stomaco pieno di paura e rabbia, il bambino con l’acqua sporca di oggettivi processi di degenerazione opportunistica, quando non corruttiva o criminale, che sono innegabili ma vengono esagerati.

Il tiranno demagogico si alimenta delle urla dei descamisados nella piazza, talmente confuse fra mille voci di disperazione e rivolta da produrre un brusio incomprensibile e inefficace in termini propositivi;

3 – comunque nessuno ha ancora visto all’opera, nella fatica del governo, questi movimenti liquidi ed orizzontali. C’è una possibilità concreta che, senza una struttura organizzativa in grado di produrre e sedimentare, fissare, analisi sociale e cultura politica, senza un radicamento in un gruppo ben identificato di interessi sociali, alla prova del governo tali movimenti esploderebbero, oppure si trasformerebbero in una versione da “chiagni e fotti” del neoliberismo: chiagni e strilli nel meetup, fotti quando operi dentro le istituzioni;

4 – è chiaro che un fronte fra le forze sociali modernizzatrici del Paese è un elemento tattico, non strategico.

Quando l’impresa si è avvalsa della sua élite lavorativa per gettarla nel fuoco della piazza, ottenuti i suoi obiettivi, la abbandona. Dal punto di vista tattico, tale fronte ha senso per battaglie limitate, su aspetti molto specifici di effettiva esigenza di modernizzazione della classe dirigente e delle sue politiche, ma non può essere pensato come elemento permamente;

5 – altra questione è invece il compromesso sociale, che se è alto è un modo per governare il conflitto fra capitale e lavoro in modo mutuamente benefico. Ma il compromesso sociale avanza sulla base di una fase conflittuale, seppur incanalata negli strumenti della democrazia politica e nelle relazioni industriali, in cui ognuno deva rappresentare al meglio la sua parte. Il sindacato è fuori quando non ha una proposta che agglomera il mondo del lavoro e che, ovviamente, può parlare anche a quello dell’impresa. Ma una proposta così concepita richiede capacità di sintesi e di interlocuzione. Richiede cioè una organizzazione politica e sindacale forte ed autorevole, non il peronista di serie B.

6 – serve un lavoro di profonda ricucitura culturale, morale e civica in questo Paese, perché le derive africane di spezzettamento tribale degli interessi sociali, che scendono al livello del micro interesse di categoria, o le tendenze latinoamericane verso il caudillismo più o meno carismatico, non sono prodotte da una crisi economica, cioè da fatti strutturali, ma da una sovrastruttura culturale, etica e solidale profondamente imputridita. Anziché guardare ai sondaggi per vedere se si è preso lo 0,1% nelle intenzioni di voto, o discutere per mesi sui numeri del tesseramento, una seria sinistra politica e sindacale si dovrebbe preoccupare di fare questa opera un pò didattica, diciamo. Senza il campo arato e seminato, non cresce il grano del consenso e dell’azione istituzionale e di governo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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