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Cina, il mercato azionario disobbedisce a Xi

Terminato da qualche settimana il rialzo "ordinato" dal governo, il mercato azionario cinese torna a riflettere i fondamentali dell'economia, fatti di pesante eccesso di capacità e crisi immobiliare. Deflazione a rischio radicamento.

Come segnala Bloomberg, il principale indice azionario domestico cinese, CSI 300, è prossimo ai minimi dal 2019, da inizio anno ha perso circa il 7 per cento e rischia di avviarsi al quarto anno consecutivo in rosso. Lo scoppio della bolla immobiliare frena i consumi mentre le tensioni geopolitiche sono destinate ad aumentare, in vista delle elezioni statunitensi di inizio novembre. Nel frattempo, l’indice dei prezzi alla produzione prosegue il suo viaggio nella deflazione mentre quello dei prezzi al consumo ne è appena uscito ma non si sa per quanto.

I puntelli statali non bastano

La ripresa del ribasso azionario, in atto da metà maggio, ha posto fine all’illusione del regime di poter “convincere” il mercato a proseguire una ripresa alimentata da massicci acquisti di Etf da parte di entità pubbliche, stimati nell’equivalente di quasi 70 miliardi di dollari, divieti di vendite allo scoperto, pesante moral suasion nei confronti degli intermediari e del trading quantitativo, oltre che delle aziende per aumentare i riacquisti di azioni proprie e i dividendi. Si è persino giunti alla sostituzione del capo del regolatore del mercato azionario.

Rispetto al picco raggiunto nel 2021, i mercati azionari cinesi domestici e quello di Hong Kong hanno perso capitalizzazione per l’equivalente di 6.500 miliardi di dollari, equivalenti alla dimensione del mercato azionario giapponese. Nel secondo trimestre di quest’anno gli utili per azione dell’indice MSCI China sono diminuiti del 4,5 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un mercato, quello azionario cinese, che ormai da anni viaggia contromano rispetto al resto del mondo.

Purtroppo, quando la realtà sottostante è fatta di una condizione di profonda crisi del mercato immobiliare, che a sua volta sta abbattendo la siderurgia, con un eccesso di capacità che costringe i produttori, praticamente tutti in profondo rosso, a cercare nelle esportazioni la valvola di sfogo, affossando mercati esteri e causando nuove tensioni internazionali, è piuttosto difficile pensare che i mercati possano seguire docilmente i diktat di regime e iniziare a salire.

Deflazione, anche da debito

Ormai da molto tempo, cioè dall’inizio della crisi immobiliare (la cui incubazione e conseguenze ho segnalato con discreto tempismo anni addietro), si moltiplicano gli appelli di economisti e osservatori anche internazionali affinché la Cina metta mano a misure di stimolo dal lato della domanda e non solo a spingere forsennatamente l’offerta e ricadere nel dumping. Finora tali appelli sono rimasti inascoltati e la popolazione risponde alle evidenti pressioni deflazionistiche con un aumento del tasso di risparmio, che nel secondo trimestre di quest’anno avrebbe raggiunto il 31 per cento del reddito disponibile.

La deflazione da eccesso di capacità produttiva interseca quella da debito, rendendo la Cina una mina vagante per l’economia del pianeta. Già oggi, analizzando in controluce i poco verosimili dati macroeconomici del paese, si coglie che la crescita del Pil nominale è frenata dalla deflazione, il cui incremento determina dati di crescita reale solo in apparenza rassicuranti. Ricordate la formuletta? Crescita nominale meno deflatore del Pil uguale crescita reale. Se il deflatore è negativo, si somma alla crescita nominale gonfiando quella reale.

Vedremo cosa il regime si inventerà a questo giro per rianimare le quotazioni. Al momento, diremmo che il mercato azionario è decisamente all’opposizione del regime di Xi Jinping. Il quale, nel frattempo, insiste con la cosiddetta “crescita di qualità” destinata a invadere il mondo distruggendo occupazione e tessuto sociale dei paesi destinatari. I quali mettono mano a misure difensive tardi e poco, nel timore di vedere precluso alle loro esportazioni il mercato cinese.

Di questo epicentro di crisi globale, tra deflazione, domanda interna compressa ed esportazioni drogate, fa le spese soprattutto l’economia europea. Delle auto abbiamo detto ad abundantiam. Non scordiamo poi il settore del lusso, dove la Cina ha smesso di trainare il mercato mondiale, infliggendo pesanti arretramenti alle quotazioni azionarie delle aziende coinvolte.

Su di noi ben più di una nuvola

Giù per li rami, dall’Europa giungiamo ai riflessi sul nostro paese. Ieri Istat ha pubblicato il dato di produzione industriale di luglio. Pessimo, ma non è una novità. Ennesima contrazione mensile ma superiore alle attese, con la manifattura pesantemente colpita. All’interno di essa, i due settori che su base annua stanno soffrendo maggiormente sono i mezzi di trasporto (-11,4 per cento) e tessile, abbigliamento, pelli e accessori (-18,3 per cento). Se provate a unire i puntini, c’è una discreta probabilità che non abbiate scambiato una causa per una correlazione.

Sono le ombre cinesi, e non possiamo farci niente. Se non andare in giro ripetendo che stiamo facendo meglio della Germania (alle cui catene di fornitura è agganciata ampia parte della nostra manifattura, ma transeat), e comunque noi abbiamo il turismo che è il segreto del nostro successo. Per tutto il resto, ci sono notabili e peones di maggioranza incaricati del lancio dell’Ansa e delle card sui social, per la modica cifra di 15 mila euro mensili, a carico dei contribuenti. Quelli rimasti, almeno.

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