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Cervelli in fuga: attenzione agli stereotipi creati dai media

I tanti discorsi sulla fuga dei cervelli stanno alimentando una diffidenza nei confronti dei corpi rimasti a casa?

I media parlano tanto di cervelli in fuga, di giovani brillanti costretti a espatriare per fare carriera, per sentirsi apprezzati da qualcuno o anche solo per poter lavorare dignitosamente. Esiste addirittura un sito specializzato al riguardo.

I discorsi sul tema discutono l'indignazione generale, la delusione di un intero Paese, l'irriconoscenza nei confronti dei meriti, la malinconia degli emigrati, etc. Mario Venuti aveva già intuito il fenomeno nel 1999, quando cantava di «ragazzi di buona famiglia che qui non farebbero mai un lavoro degradante, poi vanno a Londra a pulire pavimenti: sembrano esserne contenti» (Il più bravo del reame).

Lamentare la fuga degli italiani, che espatriano in cerca di opportunità e gratificazioni, trova giustificazione in un sistema economico, politico e culturale che sta fallendo sotto gli occhi di tutti, disperdendo le proprie risorse verso l'estero; spesso verso un estero che non avrebbe alcun bisogno del nostro contributo per crescere. Il vespaio rischia però di radicare anche una logica simbolica controproducente, antipatica e forse ingiusta, che potrebbe intaccare ulteriormente l'autostima, già indebolita, dei sopravvissuti all'Italia (o all'italiana).

Possiamo essere portati infatti a paragonare i cervelli in fuga con gli eroici emigranti del XIX e del XX secolo. Così facendo, rischiamo però di scadere altrettanto facilmente in un'analogia pericolosa, quella cioè di credere che chi abbandona il paese sia degno di lode, come lo è chi ha il coraggio e la forza di spiccare il volo dal nido materno.

Rischiamo insomma che i media ci portino a coltivare l'analogia: in fuga = meritevoli; contrapposta all'altra: residenti = bamboccioni.

Anche in questo caso qualcuno aveva già intuito la portata del fenomeno: Ettore Scola, Age e Scarpelli facevano dire ad Alberto Sordi, nel film Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), che «i poverini non sono quelli che sono andati via, ma quelli che sono rimasti qui», a sopportare stress e difficoltà crescenti.

Gli stessi motivi che inducono alcuni a fuggire feriscono la dignità di chi resta a casa. Rischiamo però che si crei una distanza sociale, oltreché fisica, tra gli uni e gli altri, già predisposta dall'istituzione della categoria dei cervelli in fuga, che suggerisce la reciproca categoria dei corpi che restano. Senza considerare quanto sia irriguardoso definire quei nostri cervelli in fuga, come fosero vigliacchi egoisti. I media insomma, trattando questo tema, rischiano di ferire tutti quanti.

Oltre a osannare chi rappresenta con merito l'eccellenza italiana all'estero (senza però definirlo un fuggiasco), ogni tanto spezziamo qualche lancia anche in favore di chi ha scelto di restare per mantenere in ordine casa, altrimenti i profughi che motivo avrebbero di tornare a fare gli italiani?

 

Foto: SEL/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.189) 14 agosto 2013 23:51

    E io aggiungerei un’altra considerazione: ma davvero estero=meritocrazia?


    In alcuni ambiti (vedi università) ormai si opzionano non solo posti in Italia, ma anche nelle facoltà estere con le quali si intrattengono rapporti di collaborazione varia.

    Chi fa carriera in Italia spesso è solo più raccomandato di chi si deve accontentare di un posto fuori, ugualmente opzionato.
  • Di (---.---.---.32) 10 novembre 2013 15:31

    Sono Elena Dobici, laureata con 110 e lode, in possesso di titolo di dottorato di ricerca in Economia Politica. Dopo quattro anni di docenze a contratto presso l’ Università della Tuscia, sono stata fatta fuori perché non ho pubblicazioni al mio attivo, nonostante abbia sottoposto i miei articoli alla revisione di docenti membri di riviste scientifiche. Non ho parenti, né amici in alcuna università. Se qualcuno mi spiegasse come poter trovare il mio all’estero, gliene sarei grata.

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