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Catalogna - Spagna | Chi deve decidere la separazione?

Aspettando i dati più importanti, sulla riuscita dello sciopero generale, sulla sua durata, sugli sviluppi di iniziative di solidarietà in altre regioni dello Stato spagnolo, che arrivano parziali e contraddittori, tento una breve riflessione sulle ripercussioni nel dibattito in Italia. Nei commenti sulla vicenda catalana se ne sono sentite di tutti i colori, anche a sinistra. 

 

C’è chi respinge il referendum con il ridicolo argomento che la costituzione non lo prevede, dimenticando che la costituzione spagnola del 1978 era stata pensata proprio per garantire la continuità col quarantennio franchista: probabilmente proiettano su ogni costituzione l’aura di sacralità che circonda la Costituzione italiana, da quando è stata minacciata da Renzi, senza che ci si domandi perché un documento così bello non sia mai stato applicato (come gran parte delle costituzioni: ne ho parlato spesso a proposito di quelle “bolivariane” di Ecuador, Bolivia e Venezuela, belle letterariamente, ma spesso aggirate).

Ho sentito perfino elogiare il ruolo dei Borboni nella transizione post franchista, come se non esistessero molte buone ragioni - compreso il comportamento di quella famiglia reale - per rivendicare (non solo per la Catalogna) un assetto repubblicano. Ma soprattutto ho sentito dire continuamente che per concedere la separazione da uno Stato considerato oppressivo, in un eventuale referendum dovrebbero votare tutti i cittadini dello Stato. È un po’ come se il diritto al divorzio fosse riconosciuto solo in caso di accordo tra le due parti.

Ho sentito ripetere che in tutto il mondo le costituzioni escludono il diritto all’autodeterminazione fino alla secessione. Più o meno è vero, ma non vuol dire niente. In realtà una sola costituzione, quella sovietica, lo prevedeva non solo nella sua prima stesura (quando tale diritto veniva effettivamente riconosciuto e applicato) ma anche nelle successive che pure erano tutt’altro che rispettate nella pratica, tanto è vero che le questioni nazionali irrisolte furono tra le cause del crollo di quel sistema. Eppure in varie parti del mondo ci sono state lo stesso secessioni, ovviamente mai apprezzate dai governanti del paese da cui una regione si staccava, anche se prima o poi riconosciute: in America Latina dopo il convulso processo di separazioni che cancellò il progetto bolivariano de Nuestra América si era staccato ancora il Texas dal Messico, e Panamá dalla Colombia; e c’erano stati molti altri casi, sempre indipendentemente da quel che prescrivevano le costituzioni.

Come conseguenza di molti fattori tra cui unificazioni affrettate e incapacità di rispettare le caratteristiche di ciascun paese era saltato il progetto della Repubblica Araba Unita, e dal Pakistan pessimamente separato dall’India si era staccato a sua volta il Bangladesh. Poi c’era stata l’esplosione dell’URSS e soprattutto quella della Jugoslavia: certo facilitata dai frettolosi riconoscimenti internazionali e dalle benedizioni papali, ma generata dall’insostenibilità della convivenza all’interno di una federazione in cui la repubblica più forte usava le truppe federali per rispondere con le bombe a una rivendicazione di maggiore autonomia del Kosovo (che aveva ancora una direzione guidata dalla Lega dei comunisti). Sarà l’irrigidimento di Belgrado a far crescere nuove leadership sempre più radicali, e a offrire pretesti per l’intervento delle grandi, medie e piccole potenze europee. Altra cosa poi che la prima repubblica che si staccò dalla Jugoslavia, la Slovenia, perse nei primi anni dopo l’indipendenza un quarto del suo PIL, che era il più alto della Federazione Jugoslava, pur non subendo direttamente che pochi giorni di conflitto con la Serbia. È un argomento scottante, le letture sono diverse, e le teorie del complotto prendono piede tanto più facilmente quanto ci si allontana nel tempo da quelle vicende.

Il diritto a esprimersi in un referendum d’altra parte non vuol dire automaticamente predeterminare una separazione obbligata: respingere col voto una costituzione conservatrice e una pratica autoritaria sorretta da una Guardia civil giustamente detestata può essere la premessa di una ridiscussione delle regole, facendo pesare i rapporti di forza risultati dal voto. Risultati che è assurdo sottovalutare, comparandoli con quelli del precedente referendum o di altre votazioni. Più di due milioni di persone che sfidano le manganellate e le minacce di multe fortissime, non sono un risultato trascurabile e confrontabile con i due milioni di elettori rimasti a casa per indifferenza, sfiducia o per paura dei disordini. Gli uni consapevoli di rischiare, gli altri di fatto non mobilitabili: a scendere in piazza contro il referendum sono stati solo sparuti gruppi di fascisti e monarchici, non una presunta “maggioranza silenziosa”..

Non è poco che due milioni di cittadini della Catalogna abbiano sfidato i messaggi introiettati che ripetevano: “votare è illegale”. Ma allora era illegale la resistenza al colpo di Stato franchista, come in Italia non era certo legale la resistenza al fascismo, ed anzi ogni manifestazione che sfidava la legalità formale, rappresentata prima del ventennio dallo Statuto albertino e dai cannoni di Bava Beccaris...

Dopodiché si può auspicare (ma ci sono gli anticapitalistas che lavorano per questo) che lo schieramento costruito intorno al referendum trovi una strada per imporre il dialogo, facendo leva sul fatto che non la sola Catalogna ma l’intero paese conosce un degrado e un attacco alle condizioni di lavoro e di vita. Nessuno ignora quanti pericoli minacciano una eventuale Catalogna indipendente, che per ragioni evidenti avrebbe contro almeno Francia e Italia, oltre ovviamente alla Spagna, più che sufficienti per bloccare l’adesione alla CE. E avrebbe non pochi problemi per ridefinire i rapporti tra due economie che sono strettamente intrecciate tra loro. Perfino il prodigioso Barça, che pure ha aderito allo sciopero del 3, che farebbe una volta rimasto fuori da un campionato in cui fa spettacolo e cassetta confrontandosi col Real Madrid?

Opporsi al centralismo del PP, che si era già manifestato più volte facendo cancellare da una corte costituzionale compiacente diversi articoli dello statuto catalano e modificare altri, è stato giusto ed è stato anzi indispensabile per poter ridiscutere con Madrid da una posizione di forza. Due milioni di voti non sono la maggioranza ma non possono essere ignorati. E possono pesare di più se la Generalitat non dimentica che una parte dei votanti non erano partigiani dell’indipendenza ad ogni costo, ma volevano soprattutto battere un centralismo anacronistico e aggressivo, che pretendeva di negare perfino la possibilità di esprimersi con un voto, e se prende quindi per prima l’iniziativa di riproporre una trattativa sullo statuto, e sulle ragioni di fondo dell’esasperazione di una parte della popolazione.

Sarà così possibile consolidare l’area che ha conquistato in questa fase, e mettere con le spalle al muro il PP ma anche il PS che lo sorregge. (a.m.)

 

 

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