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Carcere: i tassi bassissimi dei Paesi Bassi. In dieci anni detenuti dimezzati

Un interessante articolo è stato pubblicato dalla rivista «Internazionale» (*): riguarda i tassi di carcerazione in Olanda e spiega come siano molto più bassi che altrove. Tutti dovrebbero leggerlo; in particolare nei Palazzi delle istituzioni in cui, fra l’altro, la rassegna stampa viene fornita gratis da un apposito servizio mentre noi “comuni mortali” a «Internazionale» dobbiamo abbonarci (ma sono soldi ben spesi).

di Vito Totire

I tassi di carcerazione non sono un evento naturale ma il riflesso della presenza o assenza di politiche per la prevenzione e l’inclusione. Su questo argomento si è soffermato di recente anche Michael Marmot (**) con il suo fondamentale saggio «La salute disuguale» commentando le cause e le conseguenze della enorme (e non casuale) discrepanza nei tassi di carcerazione tra Usa, Gran Bretagna e Islanda.

Per tornare all’articolo di «Internazionale» ecco i punti salienti:

  • riduzione delle carceri olandesi da 85 a 18; le prigioni “svuotate” sono state riconvertite ad alberghi o a strutture socialmente utili;
  • riduzione dei tassi di carcerazione da 125 persone ogni 100.000 abitanti nel 2005 alle attuali 59; conseguente ricollocazione dell’Olanda nel panorama mondiale che vede (come già denunciava Marmot) gli Usa in vetta all’infame classifica con 666 persone, Inghilterra e Galles con 146, Francia con 103, Germania con 77 sempre su 100mila; il tasso di “criminalità” nei Paesi Bassi è decresciuto dell’1% all’anno nell’ultimo decennio;
  • l’apparato olandese che gestisce la politica delle pene ha assunto le valutazioni e le proposte dello psicologo Mc Guire secondo cui la repressione è inefficace e le pene detentive servono solo a facilitare la reiterazione del reato; accantonando questa strategia controproducente occorre puntare – sostiene Mc Guire – sulla sospensione condizionale delle pene associata ad attività di supporto sociale;
  • attualmente le sentenze pronunciate dai tribunali penali olandesi comportano per il 50% pene detentive (spesso molto brevi) e per il 50% affido ai servizi sociali:
  • le persone private della libertà vengono prese in carico valutando fattori statici (come traumi infantili a volte difficili da recuperare pienamente) e fattori dinamici del rischio di recidiva (difficoltà e condizioni acquisite di recente come tossicodipendenza, indisponibilità di lavoro, abitazione); si cerca realisticamente di intervenire soprattutto sui fattori dinamici; la privazione della libertà è occasione generalizza di formazione lavorativa e per l’acquisizione di competenze e nuove abilità; tutto il contrario delle carceri italiane dove la costanza è l’inattività in cella 24 ore e dove sistematicamente si calpesta la Costituzione repubblicana;
  • il sistema olandese punta sulla responsabilizzazione della persona e non sulla sua “custodia” che perpetuerebbe meccanismi di passività;
  • viene citato nell’articolo il carcere di Leeuuwarden in cui le persone detenute possono chiudersi a chiave in cella, un fatto impensabile nel resto del mondo e usufruiscono di spazi per l’autonomia: si svegliano da sole, vanno e tornano da sole dai laboratori artigiani, possono usare carrelli elevatori, seghe circolari, coltelli da cucina; in sostanza si punta sull’auto-responsabilizzazione piuttosto che sulla “custodia”;
  • particolarmente intelligente pare l’accenno a interventi di risarcimenti alle vittime; nell’articolo il tema purtroppo non viene molto sviluppato ma pare fare rifermento al fatto che un congruo risarcimento alle vittime (in Italia e in altri Stati le vittime vengono sovraesposte a livello mediatico ma molto raramente possono contare su adeguate forme di sostegno e di vera solidarietà soprattutto da parte delle istituzioni pubbliche, salvo l’azione di comitati di autoaiuto che riescono a sostenere le difficoltà materiali e l’elaborazione dei lutti subìti); evidentemente è una prassi che crea un clima psicosociale più favorevole al reinserimento delle persone detenute;
  • nell’articolo si fa un rifermento (purtroppo fugace) a “terapie” per il sostegno a chi è detenuto; la questione è da approfondire ma si intravede una capacità di supporto importante sul piano psicologico e psicodinamico;
  • gli autori dell’articolo sottolineano la grandissima importanza delle prime 48 ore di detenzione e delle accortezze (evitando di recidere bruscamente i rapporti con l’esterno) che vengono adottate in quel momento molto difficile che, come è tristemente noto, rappresenta anche la fase a più alto rischio di comportamenti autolesionisti;
  • infine gli autori sottolineano come le politiche che hanno dato impulso alla dinamica “svuotacarceri” sono state innescate da governi conservatori e comunque godono di consenso diffuso sul piano politico e sociale; come dire “che ci vuole?”; lo stesso Mc Guire ha scritto un saggio fondamentale, «Wat works-cosa funziona»; titolo molto chiaro che indica una direzione socialmente utile per tutti e non solo per le persone a rischio di detenzione; una società più equa – come dimostra Marmot – è meno criminogena; perché non lo si vuole capire?

 Si può fare di più dei Paesi Bassi? Certamente! Ma la strada tracciata pare proprio quella giusta. In Olanda è sempre esistito un pensiero “abolizionista” in materia di pene detentive. Si sa: le utopie qualcosa di buono lo producono sempre e, come si dice, sono i miraggi a mettere in moto le carovane.

 

(*) «Oltre le sbarre» di Johannes Bohme e Brande Eins su «Internazionale» 1229 del 3-9 novembre 2017 (pp. 56-58)

(**) Michael Marmot «La salute diseguale: la sfida di un mondo ingiusto», Il Pensiero Scientifico editore, 2016.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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