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Bahrein, otto anni di repressione

Il 14 febbraio 2011 la “rivolta di San Valentino” incendiava il Bahrein. Dalla Rotonda della Perla, al centro della capitale Manama, si levavano le richieste comuni alle contemporanee proteste delle piazze arabe: giustizia, libertà, democrazia, dignità.

Poche settimane dopo, di gran carriera, le truppe dell’Arabia Saudita percorsero i 24 chilometri dell’autostrada che collega i due paesi e avviarono una sanguinosa repressione, portata avanti senza sosta negli anni successivi dalle forze di sicurezza locali.

Oggi la situazione resta drammatica. Lo spazio per le libertà d’espressione, associazione e manifestazione è pari a zero, non esistono più opposizioni politiche organizzate, il movimento per i diritti umani è in esilio o in carcere e chi osa protestare (compiendo dunque un reato) rischia di essere ucciso o, se va bene, di finire in carcere. Nelle carceri la tortura è diffusa e ai prigionieri vengono negate le cure mediche.

Le norme antiterrorismo hanno creato di fatto un sistema giudiziario parallelo, in cui è possibile anche che imputati civili siano processati in corte marziale. Centinaia di oppositori sono stati sanzionati con la privazione arbitraria della nazionalità.

Protetta dagli Usa e dalla Gran Bretagna, la famiglia reale continua a non pagare alcun prezzo per questa spietata repressione e s’impegna, spesso con successo, a rafforzare la sua reputazione attraverso partecipazioni a eventi mondani, l’organizzazione di eventi sportivi internazionali (come il Gran premio automobilistico di Formula 1) od opere di “mecenatismo”.

L’ultima ci riguarda decisamente da vicino.

All’università di Roma “La Sapienza” c’è una cattedra intitolata “Re Hamad per il dialogo inter-religioso e la coesistenza pacifica”. Il titolare è il professor Alessandro Saggioro.

Il “Re Hamad” che compare nel titolo della cattedra è Sua Maestà il re del Bahrain Ḥamad bin ʿĪsā Āl Khalīfa, non esattamente un esempio virtuoso di dialogo e coesistenza.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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