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Amministrative turche, Erdoğan sfida la Storia

In politica, un po’ come nello sport, conservare i successi rappresenta un passo difficile e per nulla scontato. Si possono usare mezzi leciti e illeciti, cambiare le regole e in questo, nell’ultimo ventennio, un personaggio come Recep Tayyip Erdoğan è un indiscusso campione. 

Ha subìto e contrattaccato, ha giocato sporco sul campo e nel terzo tempo in cui stabiliva accordi poi disattesi o mandati per aria. Pensiamo all’apertura al dialogo con la copiosa minoranza kurda e alla feroce repressione che ha riportato indietro le relazioni e la storia fra lo Stato turco e quell’etnìa di parecchi anni. Tutto nel giro d’un biennio. Campione del trasformismo e doppiogiochismo internazionale Erdoğan e rimasto a galla – come altri autocrati – grazie a operazioni geopolitiche che hanno pagato, sia quando favoriva la destabilizzazione siriana appoggiando in maniera occulta o palesemente i jihadisti che lì combattevano, sia avvicinandosi ai russi difensori di Asad, sia nel favorire il disegno di Angela Merkel nel tamponare la crisi migratoria della prima destabilizzante rotta balcanica verso l’Europa, accogliendo quasi due milioni di rifugiati nei campi predisposti dalla Mezzaluna Rossa .

Scandali personali e di clan familiare non sono, finora, riusciti a disarcionarlo. Né il tentativo di golpe diventato un’arma potentissima per scatenare uno dei maggiori repulisti che la cronaca contemporanea ricordi nei confronti di avversari politici: il movimento Hizmet dell’ex sodale Fethullah Gülen, azzerato con arresti e dimissioni nel settore militare, giuridico, dell’insegnamento accademico e dell’istruzione tout court, della pubblica amministrazione, dell’informazione. Quest’ultima in realtà veniva tacitata ben prima del 15 luglio 2016. La rottura sul fronte interno mostrava il volto tutt’altro che conciliante del sindaco diventato leader politico e poi premier e presidente e presidenzialista col sogno di diventare sultano, ben prima di quello che è apparso come un momento deflagrante nel Paese. Tutto nacque attorno alla protesta giovanile, spensierata, artistica e da libero pensiero senza catene del Gezi park, per finire in una riscrittura della Costituzione in funzione iper presidenzialista che sottomette la nazione al volere d’un uomo solo. Un uomo che controlla le forze armate, stabilisce budget e scelta dei magistrati, può sciogliere il Parlamento e indire elezioni senza motivi palesi, nomina personalmente: il capo dell’Intelligence, il Direttore degli Affari religiosi, quello della Banca Centrale, ambasciatori, governatori, rettori, top manager della pubblica amministrazione.

Per realizzare questo piano il fiuto politico del già presidente ha usato, in prima battuta, le azioni di chi pensava di disarcionarlo col vecchio sistema del colpo di mano che non ha funzionato. Perché quella metà e più del popolo che da anni a lui s’affida è scesa per via e l’ha difeso di fronte a carri e mitra. Puntando sul nazionalismo della stessa massa islamista che in due decenni ha reso il Partito della Giustizia e dello Sviluppo una potentissima macchina elettorale, in seconda battuta Erdoğan ha compiuto l’ennesimo scarto spiazzante e ha strizzato l’occhio ai fascisti del Mhp. Con un’alleanza fino a poco prima impensabile, ne ha garantito i seggi nel Meclis e da quei parlamentari ha ricevuto il consenso per ottenere la citata trasformazione costituzionale. Così l’Islam riformista con cui l’Akp si presentava al cospetto nazionale per rubare voti ai repubblicani è diventato più che conservatorismo, ha compattato i turchi attorno a nemici veri o presunti: golpisti, gülenisti, kurdi, giornalisti, libertari fino a scivolare ai residuati del sindacalismo o dell’attivismo marxista come se si vivesse ancora negli anni Settanta. Braccare nemici è sempre stato il fine dei ‘Lupi grigi’ di Bahçeli cui non è parso vero di dar manforte alla caccia al comunista identificato con l’esperimento politico che maggiormente aveva impensierito il sultano: il Partito Democratico dei Popoli.

Un progetto politico che in più occasioni ha superato l’altissima soglia del 10% per entrare in Parlamento e che s’è visto incarcerare una buona metà dei deputati eletti, compresi i co-presidenti del partito, con l’accusa di collusione col terrorismo o, peggio, di diretta partecipazione ad azioni di guerriglia. Un escamotage per far fuori il disegno di Demirtaş capace di aggirare la strada a senso unico della lotta armata espressa dall’ala irriducibile del fronte kurdo. Dunque il camaleontico presidente turco sembra aver vinto su più terreni una personalissima partita, che aveva sollevato dubbi anche nell’establishment di casa, infatti clamorosi sono stati i divorzi con menti del partito come l’ex presidente Gül e l’ex ministro degli Esteri Davutoğlu. Ora torna nell’aria un refrain già udito in altre fasi della movimentata cronaca politica anatolica. Il 31 marzo la nazione va alle urne per le amministrative. Nulla di trascendentale. Eppure per chi è in sella da tanto e vuole restarci ben oltre le celebrazioni del centenario della moderna Turchia (2023) ogni confronto diventa una prova estrema. E anche queste elezioni rappresentano una battaglia con ricadute sulla politica nazionale per un regime che dall’economia riceve da oltre un anno allarmanti singulti.

Già da mesi osservatori finanziari hanno fatto notare come l’estate di quest’anno diventa il limite massimo entro cui andranno a scadenza i 180 miliardi di dollari di debito estero ricevuti. Debito prevalentemente privato, dicono gli esperti, che tocca solo marginalmente lo Stato. Però quest’ultimo entra in ballo in merito alla tenuta dei conti e se la Banca Centrale ha tamponato la svalutazione della moneta nazionale, l’inflazione è crescente e mette in difficoltà i ceti popolari anche sui generi di prima necessità. A fine gennaio l’aumento dei prezzi ha superato il 30%. Temendo una ricaduta sul consenso il governo ha adottato misure populiste, quali l’aumento del salario minimo mensile portato a circa 400 dollari, sconti sulle utenze (luce, gas), diminuzione dell’iva per i ceti meno abbienti. Ma l’Akp teme che sull’urna batta anche lo scontento della piccola e media borghesia di cui da oltre un decennio s’è fatto rappresentante. Per questo nelle due mega città che costituiscono un quarto dell’elettorato cala due assi del regime: l’ex presidente del Parlamento Yıldırım, candidato a Istanbul e il vicepresidente del partito Özhaseki ad Ankara. Sperando che l’Anatolia profonda e tradizionalista non volti le spalle a un sistema che ha trovato nel liberalismo statalista un modello favorevole a mercato e clientele. Ovviamente questi passi-tampone per non cedere consenso contribuiscono all’aumento della spesa pubblica, ma in ogni luogo la politica, specie se populista, guarda al presente e non parla del domani.

Così il piano di ‘modernizzazione’ in una tradizione che riscopre l’orizzonte ottomano appare sotto gli occhi di tutti in uno dei luoghi simbolo della metropoli sul Bosforo. Piazza Taksim - prospiciente quel Gezi park che aveva conosciuto nel 2013 proteste, cortei di massa, lacrimogeni urticanti e sangue, oltre alle lacrime per i nove morti e gli oltre ottomila feriti - dopo aver visto smantellare quel Teatro Nazionale, immagine del laicismo di Atatürk, vede crescere l’ombra della cupola della nuova Moschea che il devotissimo presidente regala al popolo. Il luogo di culto è in costruzione e mostra per ora linee vuote che verranno riempite, eppure già sovrasta il monumento voluto da Mustafa Kemal, presso lo slargo che era anche capolinea del tranvai della poetica Istiklal Caddesi. Tutto corre e cambia, però questo rinnovamento urbanistico è sovraccarico di simbolismo politico. E la smania di dettar legge sulla storia e sulla stessa fede è l’idea di rinominare la basilica giustinianea di Santa Sofia quale ‘moschea di Santa Sofia’, come fosse l’epoca di Mehmet II e della conquista della Bisanzio. Del resto anche Atatürk non era stato tenero con quel luogo, islamizzato per secoli, trasformandolo in museo. Luogo che il gioiello artistico di Isidoro di Mileto si prestava a essere, ma senza forzature propagandistiche. Allora come ora. Ma chi la storia vuole farla a propria immagine e somiglianza non teme confronti. Né terreni e neppure divini.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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