Alla guerra dei dazi senza pagare dazio
Attendendo i primi ordini esecutivi di Trump, il suo capo consigliere economico spiega come imporre dazi senza pagarne gli effetti avversi. Esercizio intellettuale per economisti affetti da sindrome del demiurgo che diventa Stranamore.
Come saranno i temuti (o sperati) primi ordini esecutivi di Donald Trump riguardo al commercio internazionale? Sarà una grandinata immediata di dazi (le “tariffe”) su chiunque, oppure l’avvio di un processo di graduale innalzamento, nel corso del quale ci saranno trattative tra Washington e il resto del mondo? Manca poco per saperlo.
Nel frattempo, dal Wall Street Journal, apprendiamo che Steven Miran, scelto da Trump per guidare il Council of Economic Advisers, è giunto alla conclusione che gli Stati Uniti potrebbero migliorare la loro condizione applicando tariffe comprese tra il 20 e il 50 per cento.
La tesi è ardita ma chi la formula è un prominente economista ortodosso, sia pur conservatore, e non uno dei tanti venditori di olio di serpente che oggi vanno per la maggiore un po’ ovunque. C’è da premettere che l’elaborazione di Miran è dello scorso novembre, cioè prima di essere scelto da Trump. Potremmo inferire che la tesi era perfetta per essere scelto, ma non vorremmo essere troppo maliziosi.
La teoria della tariffa ottimale
Il report è stato scritto per una società di gestione di cui Miran è strategist, si intitola argutamente “Guida dell’utente alla ristrutturazione del sistema commerciale globale“. Dopo aver premesso che le idee esposte sono solo sue e non di Trump, Miran piazza un robusto caveat, affermando che il percorso per implementare queste policy esiste ma è molto stretto.
La base dello studio è la teoria della “tariffa ottimale”, che afferma che un grande importatore può trasferire il costo di una tariffa d’importazione dai consumatori ai fornitori stranieri se ha potere di monopsonio, cioè se è il principale acquirente di molti fornitori. Questo potere porta a un’offerta meno sensibile ai cambiamenti di prezzo, costringendo gli esportatori a ridurre i loro prezzi pre-tariffa quando aumentano le tariffe, permettendo ai paesi importatori di guadagnare i ricavi che prima andavano agli esportatori.
In soldoni, supponiamo che un importatore sia un monopsonista, cioè un acquirente sufficientemente dominante da influenzare il prezzo che paga (proprio come un monopolista influisce sul prezzo a cui vende). Potrebbe imporre una tariffa di 10 dollari su un bene importato il cui prezzo, invece di aumentare di 10 dollari, rimarrebbe invariato perché l’esportatore lo ridurrebbe della stessa misura per evitare di perdere quote di mercato.
Quindi i consumatori non subirebbero aggravi. Anche se pagassero un po’ di più, ciò potrebbe essere compensato da entrate tariffarie. Il tasso che massimizza questo beneficio netto è chiamato “tariffa ottimale.” Miran cita una ricerca di Arnaud Costinot del Massachusetts Institute of Technology e Andrés Rodríguez-Clare dell’Università della California, Berkeley, secondo cui una tariffa di circa il 20 per cento è ottimale, e fino al 50 per cento potrebbe ancora migliorare la condizione degli Stati Uniti.
A questo punto, l’autore del pezzo sul WSJ, Greg Ip (che raccomando di seguire, ne vale la pena) inizia la confutazione della tesi, da varie angolazioni. In primo luogo, la tesi di Miran rappresenterebbe un obiettivo per sé e non una tattica negoziale, come molti pensano Trump intenda. Poi, una politica tariffaria ottimale resta un gioco a somma nulla, dove un paese trae beneficio solo danneggiandone un altro.
Un menù da Stranamore
La teoria della tariffa ottimale si scontra col mondo reale: i dazi alla Cina della prima presidenza Trump si sono per lo più trasferiti sugli importatori americani. Inoltre, se gli altri paesi attuano ritorsione con altrettanti dazi, entrambe le parti perdono, e addio tariffa ottimale. E qui Miran ha, o crede di avere, la risposta: l’Amministrazione Trump potrebbe “dichiarare che considera gli obblighi di difesa comune e l’ombrello di difesa americano come meno vincolanti verso le nazioni che adottano tariffe ritorsive.” In altre parole, gli Stati Uniti potrebbero non difendere il Giappone, la Corea del Sud o un membro della NATO che praticasse una ritorsione commerciale. Vendere protezione, come Don Vito Corleone.
Altro problema: le tariffe migliorano la condizione degli americani solo se i prezzi all’importazione crescono poco e nulla. Ma, in quel caso, i consumatori non avrebbero motivo per spostarsi da importazioni a produzione interna, il che affonderebbe l’obiettivo strategico di Trump di rivitalizzare la manifattura statunitense. Inoltre, le tariffe causano l’apprezzamento del dollaro, rendendo le importazioni meno costose e le esportazioni meno competitive. Quindi il deficit commerciale potrebbe non ridursi affatto, e forse aumentare.
Ma Miran, tetragono, ha una “soluzione” per tutto, e invoca un “Accordo di Mar-a-Lago”, cioè la riedizione dell’Accordo del Plaza del 1985, di cui ho scritto qui, con i cosiddetti alleati degli americani che pilotano al ribasso il biglietto verde, cioè si autoinfliggono una perdita di competitività per evitare di perderla con le tariffe trumpiane.
Una variazione sul tema, per indebolire il dollaro, potrebbe essere una “tassa” sugli acquisti di debito federale americano da parte di non residenti. Qui io metterei la scritta lampeggiante in sovraimpressione “non cercate di farlo a casa vostra”, ma evidentemente Miran vuole presentare il menù completo, sino alle portate più surreali e avvelenate (per Wall Street).
Un pizzo per la Fed “indipendente”
E se questo divieto di acquisto di Treasury causasse (ovviamente) un aumento dei rendimenti, con rischio di strangolare l’economia, scrive Miran, la Federal Reserve potrebbe dover comprare Treasury, cioè monetizzare il debito. Se siete vieppiù perplessi, sono con voi. Miran, ormai lanciato a scrivere il manuale del perfetto Dottor Stranamore economico-finanziario, arriva ad affermare che la Fed potrebbe “cooperare” col Tesoro, comprandone il debito, dietro la promessa di mantenere la propria indipendenza.
Ora, io non sono un Ph.D in economia, né una testa d’uovo della materia come invece è Miran, ma mi verrebbe da dire che una simile “cooperazione” equivarrebbe già alla perdita di indipendenza. Oltre ad essere un consiglio da manuale del perfetto mafioso: “cara Fed, che bella autonomia che tieni. Sarebbe un peccato se le accadesse qualcosa”. E, del resto, ricordiamo che Steve Miran è quello che ha teorizzato una riforma della banca centrale per evitarne la politicizzazione strisciante, dopo aver affermato che la pura indipendenza della banca centrale è incompatibile con un sistema democratico.
Tornando alla scambio “difesa contro tariffe”, cioè minacciare di togliere l’ombrello difensivo ai paesi non “cooperativi”, Miran non si pronuncia su come risolvere la questione con Cina, Messico e Vietnam, paesi con i quali gli Stati Uniti hanno i maggiori deficit commerciali bilaterali, e che non godono di alcun ombrello difensivo americano. Attendiamo un paper che teorizzi il passaggio dalla guerra delle tariffe alla guerra per le tariffe, rimuovendo la metafora.
D’altro canto, potremmo aver già avuto un’anticipazione del nuovo mondo che ci attende con la dichiarazione di Trump che “non esclude” l’uso della forza militare per prendersi la Groenlandia.
La mia impressione è che le elucubrazioni di Miran si iscrivano agevolmente nell’ormai ricco filone degli economisti demiurghi, quelli che hanno una soluzione per ogni stato del mondo da raggiungere, e mettano tale menù a disposizione del Principe di turno. Segue immancabile risveglio.
Per tutto il resto, l’attesa volge al termine. Ancora pochi giorni e sapremo di che tariffa morire: noi o chi quella tariffa ha deciso di brandire.
(Immagine AI realizzata con Grok)
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