• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Economia > Abunai-ki: La verità inedita su Parmatour (prima puntata)

Abunai-ki: La verità inedita su Parmatour (prima puntata)

Creatività e confusione. Anzi, confusione e creatività. In una confusione finanziaria che per anni ha assunto nomi diversi, da connivenza a clientelismo, da fiducia mal riposta a fumo negli occhi, da politica ad amici potenti, un’inchiesta “impubblicabile” che descrive in scala ridotta come la “finanza creativa” abbia potuto solo qualche anno fa, quasi avvisaglia di un peggio a cui oggi stiamo assistendo, generare una crisi che ha travolto migliaia di risparmiatori con meccanismi del tutto analoghi a quelli che oggi si stanno manifestando su scala mondiale.
I documenti a corredo di questa inchiesta sono inediti perchè non sono mai stati trovati; quando gli inquirenti sono riusciti a mettere le mani sui computer di H.C.M. - la società maldiviana collegata a Parmatour - i computer risultarono guasti, non funzionanti o vuoti.
 
Un paio di pagine con un riassunto dei fatti è stato pubblicato nel 2004 dalla rivista Diario; ci si aspettava che la magistratura, che allora stava ancora indagando sul caso Parmalat, avrebbe richiesto i documenti, cercato di capire, ma non è successo nulla. Il quadro è sconcertante, soprattutto perchè rappresenta un modello: il meccanismo in cui attraverso un’infinità di isolette occultate nei paradisi fiscali di mezzo mondo, il denaro di casa Tanzi poteva fuoriuscire dalle casse di HCM per finire in paradisi di sogno, assolutamente insospettabili.
 
Il terremoto Parmalat

Il terremoto Parmalat ha inizio il 6 novembre 2003, quando la CONSOB chiede alla Parmalat come intende rimborsare le obbligazioni in scadenza. Segue la tranquillizzante risposta dei vertici del gruppo: "saranno rimborsati utilizzando la liquidità". Dopo pochi giorni la società di revisione e consulenza Deloitte & Touche esprime dubbi sull’investimento nel fondo "Epicurum": si tratta di un fondo nel quale Parmalat aveva investito un ammontare di denaro (o di attività finanziarie) molto consistente. Su tale investimento la Deloitte & Touche aveva avanzato dei dubbi, rivelatisi poi fondati, quando si è scoperto che quella quota investita non era così liquida (cioè convertibile facilmente in denaro) come Parmalat sosteneva.
Il gruppo annuncia la vendita della quota Epicurum, che però non viene liquidata come previsto. Risultato: l’8 dicembre 2003 scade una tranche di obbligazioni da 150 milioni di euro, che non viene pagata; inizia così il calvario. Alcuni mesi dopo, l’ex direttore finanziario Tonna avrebbe dichiarato che le attività del fondo Epicurum erano state inventate di sana pianta, così come quelle di un’altra scatola vuota, la Bonlat.
 
Inizialmente, si pensava che il collasso del gruppo fosse dovuto ad un uso spregiudicato della cosiddetta finanza creativa (artifizi contabili, trasferimenti di denaro a società domiciliate in paradisi fiscali ecc.) in un gruppo sostanzialmente sano dal punto di vista industriale. Dopo varie settimane di indagini, si è scoperto che tutte le società del gruppo Parmalat redigevano bilanci falsi. Certo è che l’unica attività del gruppo realmente produttiva era proprio la vendita dei prodotti del latte.
Erano ben 15 anni che Parmalat falsificava i bilanci, e l’esperienza insegna che dietro allo scandalo potrebbero esserci errori imprenditoriali lasciati poi incancrenire. Il sospetto è che la gestione finanziaria creativa della Parmalat potrebbe essere stata pensata per occultare buchi di bilancio accumulatisi negli anni a causa di speculazioni andate a male e per nascondere perdite derivanti da acquisizioni sbagliate. Molti degli spostamenti di liquidità tra le varie società del gruppo, grazie all’utilizzo di artifizi contabili e paradisi fiscali, potrebbero essere serviti a coprire proprio tali buchi.
 
A conferma di ciò ci sono due fatti da considerare: In primo luogo, l’unico mercato dove il gruppo alimentare guadagna davvero è proprio l’Italia, mentre la principale fonte di perdite deriva dalle attività all’estero. In pratica, l’unica attività capace di generare una redditività significativa è il cosiddetto "core business", ossia la vendita dei prodotti del latte. Acquisizioni sbagliate all’estero e allontanamento eccessivo dal business primario potrebbero quindi aver generato perdite ingenti, inducendo Tanzi a cercare di nasconderle agli occhi del mercato.
 
È vero che, quando le voci iscritte a bilancio sono false, le analisi e i controlli sono poco significativi e non aiutano a scovare eventuali problemi. È altrettanto vero, però, che la situazione di pesante e crescente indebitamento, abbinato a una ingente e inutile liquidità che ha caratterizzato la Parmalat negli ultimi 5 anni, avrebbe dovuto spingere le autorità di vigilanza a chiedere qualche chiarimento.
 
Ma chi sono i Tanzi?

Tutto casa, chiesa e azienda, il signor Calisto Tanzi. Una moglie, Anita Chiesi, Titti per gli intimi, che arriva da una famiglia di industriali farmaceutici. E due figli; Stefano che guidava il Parma Calcio e Francesca che si occupava delle attività turistiche comprate da papà. Marchi importanti, le banche di riferimento: nomi altisonanti della finanza anglosassone come Morgan Stanley, Citigroup, Bank of America. Tanzi bussava e loro aprivano la porta.
 
Così, con la fattiva collaborazione della banche, Tanzi, Tonna e compagni hanno potuto letteralmente invadere il mercato con i bond targati Parmalat. In totale 7 miliardi di euro. Li hanno comprati tutti. I fondi d’investimento e le compagnie d’assicurazione, i grandi speculatori internazionali e le vecchine della porta accanto. Con l’unica, sostanziale differenza, che i professionisti della Borsa, fiutata la truffa, hanno mollato la presa con settimane, a volte mesi d’anticipo. Il parco buoi, invece, cioè i comuni risparmiatori, ha visto crollare in un istante il castello di carte messo in piedi dal Cavalier Calisto.
 
D’altronde, come non fidarsi? I bilanci del colosso di Parma avevano il marchio D.O.C. Amministratori, Collegio Sindacale e Revisori garantivano: tutto a posto. Ma a ben guardare, quei conti forse meritavano un po’ più di attenzione. Il campanello d’allarme, per la verità, era già suonato una quindicina d’anni fa; a forza di crescere il Cavalier Calisto aveva perso il conto dei debiti, che stavano per portarlo dritto al fallimento. Per di più, lui che si intendeva solo di latte, aveva avuto la bella pensata di mettersi a produrre anche le merendine, i biscotti, i succhi di frutta, i sughi. Risultato: un mare di perdite. Senza contare che per compiacere il suo sponsor politico Ciriaco de Mita, si era avventurato anche nel settore televisivo creando Odeon tv, con qualche ambizione di fare concorrenza alla Fininvest di Berlusconi. Progetti folli che finirono per mettere in pericolo la sopravvivenza del gruppo.
 
Niente paura. In soccorso di Tanzi si attivò la Finanza Cattolica. Dapprima, scese in campo Giuseppe Gennari, un uomo d’affari del tipo ’mordi e fuggi’, svelto e abile in Borsa. Fu varata una complicata operazione che doveva portare all’alleanza tra la Finanziaria Centro-Nord di Gennari con la Parmalat. Tutto bene, ma ancora non bastava. Serviva molto più denaro. Un aumento di capitale da 600 miliardi di lire. Fu allora che scese in campo Gianmario Roveraro, patron della banca d’affari Akros, un finanziere bianco latte che non ha mai fatto mistero del suo impegno nell’Opus Dei. Roveraro nel 1990 pilotò la quotazione in Borsa della Parmalat, che coincise con l’uscita di scena di Gennari. Nel frattempo, le banche avevano aperto il portafoglio. Tanzi, che rischiava il fallimento, fu salvato da un prestito pronta cassa di 120 miliardi di lire. E a gestire l’operazione fu il Monte dei Paschi di Siena, gigante del credito allora guidato dal democristiano Carlo Zini.
 
Fu così che, dimenticati gli affanni e i debiti, il Cavalier Calisto riuscì a ripartire alla grande. Anno dopo anno, acquisizione dopo acquisizione, la Parmalat si è trasformata da media azienda agroalimentare in un colosso internazionale. Era sbarcata in Sudamerica. In Brasile e Venezuela i marchi del cavalier Calisto sono conosciutissimi. Poi negli Stati Uniti, in Canada, in Messico. Nell’emisfero opposto il gruppo emiliano aveva piantato le insegne in Sudafrica e in Australia. In Italia Tanzi era diventato così forte da sfiorare il predominio assoluto di mercato, tanto che l’Antitrust era intervenuta per imporgli la vendita di alcuni marchi. Anche qui non tutto è filato liscio. Per comprare le aziende cedute su ordine dell’Antitrust sono spuntati degli investitori americani. Un paio di loro con nomi molto italiani: Anthony Buffa, Lou Caiola e, infine, Steven White. Dal 2001 fino alla fine questi tre signori si sono passati il testimone, subentrando l’uno all’altro nel controllo di marchi molto conosciuti come Giglio, Matese, Sole, Carnini. Peccato che nessuno di loro avesse una esperienza consolidata nel settore lattiero-caseario. Erano semplici investitori finanziari, peraltro del tutto sconosciuti anche negli Stati Uniti. Logico allora che adesso ci sia chi sospetta che Buffa e compagni siano semplici prestanome del signor Calisto, che proprio non voleva saperne di staccare il piede dall’acceleratore.
Una corsa a perdifiato, la sua. Nel 1990 Parmalat fatturava 569 milioni di euro. Cinque anni dopo era arrivata a 2,2 miliardi. Nel 2000 l’azienda di Parma celebrava trionfalmente quota 7 miliardi di euro, per la precisione 7,3. Ancora nel 2001, nonostante le difficoltà dovute alla crisi del mercato sudamericano, il giro d’affari si è attestato a quota 7,5 miliardi di euro. Bravi, bravissimi. Peccato che buona parte delle società comprate in giro per il mondo perdesse soldi a rotta di collo. E per tappare i buchi Tonna faceva ricorso alla finanza creativa. Cioè alla sistematica falsificazione dei bilanci.

Per ora, il nostro viaggio nella finanza creativa si conclude qui. Torneremo la prossima settimana per capire i meccanismi e i ruoli dei personaggi che hanno partecipato alla gestione creativa di questo piccolo esempio “nostrano” di crisi internazionale. Un panorama che, volendo, era noto e conosciuto a chi avrebbe dovuto sapere da almeno un decennio.

Commenti all'articolo

  • Di verygod (---.---.---.66) 14 dicembre 2008 11:55
    Glaros - scrittura creat(t)iva

     Verygod Enrico,

    visto che mi pare tu abbia apprezzato l’approccio dell’articolo 2368 in fase di redazione, perché non uniamo le tue competenze sulla finanza creativa alla mia creativa reinterpretazione della intera question?
    Chissà che non riusciamo a fare pdemocraticamente meglio dei Tre monti e dei Tri chet...
    Come da estratto su http://www.eprouverture.com/disseminazione/corto.php?search=2

    In ’materia’ , anche in merito alla tua valutazione dell’articolo 2378 alla quale ho cercato maldestramente di rispondere ’in loco’ , ti invito a leggere l’insieme della mia ’produzione’ che, più o meno, è tutta presente online.

    Una volta preso atto di tutto quanto ho scritto nonché della corposa bibliografia che sottende, credo che non ci siano più i problemi di sottintesi e di lunghezza che rilevi circa il sopracitato 2378.

    Ritengo piuttosto che ormai sia del tutto opportuno passare alla ’fase 2’ e rilanciare il senso complessivo della mia serissima pro-vocazione e del suo ’vangelo’ CortocircuitOne, in termini di nuova sintesi filosofico/politica.

    Ma anche teo-logica, considerato ad esempio quanto scrivo in Europa D Cesare o Europa D Dio sulla data del 24 gennaio e, più in generale, nel mio primo articolo per AgoraVox sulla coerenza di sistema.

    E tutto ciò andrebbe fatto già entro le prossime elezioni europee, esprimendo anche una candidatura in tal senso e magari corredando la seconda edizione riveduta e corretta di CortocircuitOne con una serie di immagini ad hoc... 

    Oppure vogliamo continuare lasciare i ’diritti d’autore’ sul potentissimo nesso fra Dio, Demonio e Dinero ai soliti ignoti e/o ai soli Eco e Dan Brown?

    A buon intenditore...

    • Di Enrico Miglino (---.---.---.81) 14 dicembre 2008 15:52
      Enrico Miglino

      Ho letto il tuo commento e ti ringrazio delle considerazioni. C’è un aspetto tuttavia sul quale dissento, in quanto se non sono almeno mi ritengo giornalista. E mi interessa sottolineare che si tratta di un punto di vista assolutamente personale, che nulla ha a che vedere con reciproca stima, soltanto punti di vista differenti sull’interpretazione della realtà.
      Questa che commenti è la prima puntata di tre (almeno, forse la divideremo in quattro per motivi di leggibilità) di quella che per me è un’inchiesta: raccontare fatti che accadono, situaizoni che si verificano, personaggi che controllano, agiscono, fanno, dentro o fuori dai confini della legalità. Il tutto sempre con un obiettivo immediato, quello di fornire uno strumento ineccepibile di valutazione al lettore. E questo obiettivo primo si raggiunge con documentazioni, fotografie, nomi e cognomi ma anche escludendo quanto possibile il giudizio personale; dove chi scrive lo ritiene necessario sia evidente che si tratta di considerazioni e non di dati oggettivi. Ciò detto, credo anche che il compito di un giornalista che pubblica un’inchiesta sia in qualche modo quello di andare a cercare di capire ciò che è successo in modo esteso e il più completo possibile, docmentando i fatti attraverso immagini, registrazioni, documenti, estratti e ogni altra forma di documentazione che - se non del tutto pubblicata - sia almeno in possesso di chi scrive la notizia.
      Quella del "caso" parmatur, un po’ vecchiotto per balzare ancora alla ribalta della cronaca, anche se ancora oggi è un caso che è rimasto senza troppe verità, è un esempio in un’inchiesta più ampia che da alcune settimane trova spazio su agoravox (altrimenti impubblicabile su altre testate con meno coraggio e più retorica) e che proseguirà fino ad arrivare al nocciolo della questione, di cui non ti anticipo nulla per ora, che ha un nome: Basilea II - Il nuovo accordo mondiale sul capitale.
      Questo per dirti che una cosa è fare inchiesta - secondo me - parlando come in questo caso di finanza creativa e un altro è fare della creatività, sfociando, come giustamente citi a fine commento nella fantapolitica dei best seller alla Dan Brown. Non li didegno, anzi, visto che scrivo anche romanzi è un’idea che mi è passata più di una volta per la mente, ma non è questo il caso ritengo e alla fine, dovendo scegliere, trovo ad oggi comunque più intrigante e interessante, cercare di scoprire - magari leggendo fra le righe ciò che tutti hanno detto e scritto senza voler leggere e sentire - la verità giornalistica, semplicemente i fatti, perchè la gente credo sia doveroso sappia, dove vive, accanto a chi vive e come viene spesso menata per il naso.

      Al lettore la facoltà di giudizio e di valutazione, per schierarsi, concordare o discordare. Come dovrebbe essere la stampa nei suoi principi più genuini.

      Enrico

  • Di verygod (---.---.---.17) 16 dicembre 2008 16:38
    Glaros - scrittura creat(t)iva

     Vedi Enrico,

    non si tratta affatto di non condividere la ’tua’ versione della verità, al contrario si tratterebbe, come sto sollecitando a fare dall’inizio degli anni Novanta, di incrociare i fatti reali con la mappa che ha tutta l’aria di sovradeterminarne fortemente l’accadere.

    Nel pieghevole dedicato al seminario R&S Reseaux et Sens che caratterizza il mio psicosinergetico approccio di indagine, riporto una frase di Fruttero e Lucentini che recita :

    " Perché tra i mondi possibili ce n’è uno, che non è affatto immaginario. Solo che non tutti lo sanno. Molti neanche lo sospettano... "

    Vedi Enrico, la questione, come scrivo nell’aggiornamento di CortocircuitOne, è che noi di fatto siamo storicamente all’interno di un romanzo di Eco o di Dan Brown, e, su tutto ciò, concorda esplicitamente la dichiarazione de La Nacion a Hitler ha vinto la guerra che riporto nell’articolo 11 settembre 2001 - Deep truth la quale recita: 

    “Sconcertante, rivelatorio, Hitler ha vinto la guerra ci fa scoprire le connessioni impensate fra il passato ed il presente. Il lettore avrà la sensazione di vivere in un mondo creato da George Orwell e Stephen King senza poterne uscire”. 

    Vedi Enrico, quello che invito caldamente a fare è a
    prendere atto insieme ai fatti reali di quella particolare ulteriore realtà che ne guida l’immaginario collettivo, le platoniche idee, i modelli concettuali e che, con tutto ciò, gestisce di fatto i messaggi pubblicitari, quelli teo-logici nonché l’economia che a tutto ciò gira appunto intorno con i suoi semiotici mondiali accordi.





Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares