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A Natale il Messico ci regala i soldatini (e il record di omicidi)

Tra pochi giorni si chiude un anno nefasto per la (in)sicurezza in Messico sotto almeno due punti di vista. Per prima cosa quest’anno gli omicidi dolosi saranno, secondo i dati preliminari, oltre 27mila, un record negativo preoccupante che fa del 2017 l’annata più mortifera della storia. 

E il dramma correlato è che, secondo le medie attuali, probabilmente il 98% di questi delitti rimarranno impuniti, senza processi o condanne per i responsabili. Il 2017 rappresenta l’undicesimo anno di narcoguerra, la strategia di lotta ai cartelli della droga basata sul dispiegamento di decine di migliaia di militari sul territorio che lanciò l’ex presidente Felipe Calderón e che l’attuale capo di stato, Enrique Peña Nieto, ha continuato fino ad oggi. In realtà non si tratta di una semplice politica pubblica di sicurezza ma di una vera e proprio guerra civile di tipo economico, in cui la parti belligeranti sul campo non combattono per motivi ideologici o politici ma per risorse ed economie criminali. 

E’ un conflitto interno, una guerra non dichiarata ufficialmente per non far scappare i turisti e gli investitori e non far scattare meccanismi di controllo internazionale. I tassi di omicidio doloso ogni centomila abitanti, indicatore chiave della violenza nel paese, sono arrivati a triplicarsi nell’ultimo decennio. In un conflitto di questo tipo ci sono sempre decine di migliaia di vittime dirette e indirette, silenziate e criminalizzate dai belligeranti, e notoriamente dal governo: infatti, si contano quasi 35mila desaparecidos e oltre 350mila rifugiati interni, costretti ad abbandonare le loro case per via della guerra.

La banalizzazione della violenza e del male, direbbe Hannah Arendt, ha raggiunto livelli insultanti, il che sta producendo la rottura del tessuto sociale e comunitario, la repressione ex ante ed ex post dei movimenti sociali e delle domande della popolazione, immersa in un intorno economico neoliberista e selvaggio, sempre più abbandonata dallo stato e dalle istituzioni: pensioni da fame e privatizzate (ne ha parlato proprio in questi giorni la Commissione Economica per l’America Latina-CEPAL), salute ed educazione pubbliche allo sfascio, povertà quasi al 50% e disuguaglianze in crescita, stipendi al minimo (ormai più bassi di quelli cinesi). Si tratta di un modello di sviluppo basato su infimi tassi di raccolta fiscale, con lauti sconti soprattutto alle multinazionali e ai grandi conglomerati, e sui bassi salari di una mano d’opera mansueta per attirare investimenti produttivi, finanziari e speculativi per generare crescita, mediocre perché intorno al 2-2,5% l’anno, senza sviluppo. In questo contesto la povertà delle masse e l’ostentazione della ricchezza da parte di ridotti settori privilegiati, tra cui dobbiamo includere anche chi arricchisce rapidamente grazie alla corruzione, all’intrallazzo politico e ad altri affari illeciti legati al narcotraffico o al riciclaggio, diventa “violenza strutturale”, elemento paralizzante della società ed esercizio quotidiano del disprezzo di classe, etnico, di genere. Il contrario della pace e dello sviluppo promessi in tutte le campagne elettorali.

Come secondo regalo di Natale arrivano i soldatini. La marina e l’esercito hanno da pochi giorni a disposizione un nuovo quadro legale, fortemente voluto dal presidente, dai partiti di centro-destra e dai vertici delle forze armate, che legittima e normalizza la loro presenza nelle strade, che doveva essere temporanea ed eccezionale, e amplia notevolmente le loro facoltà e il loro impiego in funzioni di sicurezza pubblica. Insomma, secondo la nuova Legge della Sicurezza Interna, i compiti tipici dell’esercito come garante della sicurezza nazionale s’estendono ora alla pubblica sicurezza che, secondo la Costituzione, è di competenza delle autorità civili, cioè della polizia e del potere giudiziario, tra gli altri. Quando il presidente, con piena discrezionalità, emetterà una “Dichiarazione” di rischio per la sicurezza interna, si potranno commissariare militarmente interi stati del Messico, limitare le libertà fondamentali e i diritti umani, secretare informazioni, mettere le polizie e gli inquirenti sotto controllo militare. Prima c’era bisogno di un “invito” o richiesta da parte dei governatori, ora non più.

Le forze armate potranno svolgere indagini, fare perquisizioni senza mandato giudiziario e, in certi casi, intervenire sul territorio anche senza la dichiarazione presidenziale. E’ stata la legge più criticata della storia e si sono fatte sentire organizzazioni internazionali, come l’ONU, la Commissione Interamericana per i Diritti Umani, il Parlamento Europeo e WOLA (l’Ufficio di Washington per l’America Latina), e nazionali, come la Commissione Nazionale per i Diritti Umani, centinaia di Ong, unite nel movimento #SeguridadSinGuerra (Sicurezza senza guerra) e gruppi per la difesa dei diritti umani. Le proteste hanno enfatizzato il ruolo dell’esercito nelle esecuzioni extragiudiziarie e nelle sparizioni forzate, in crescita negli ultimi anni, e in stragi come quelle di Tlatlaya e Tanhuato, per menzionare solo due esempi recenti. Da quando sono state impiegate per compiti di sicurezza pubblica le forze armate hanno sperimentato una crescita vertiginosa del loro “indice di letalità”, cioè del rapporto tra morti e feriti durante gli scontri armati con presunti delinquenti, il che fa pensare a esecuzioni sommarie e retate arbitrarie più che a operazioni di “mantenimento dell’ordine pubblico”.

Comunque sia non c’è stato verso di fermare la legge, era un atto dovuto dall’esecutivo alle forze armate e, anche se verrà subito impugnato presso la Corte Suprema e probabilmente sarà abrogato, resta il fatto gravissimo che il parlamento non ha aperto spazi di dialogo su una questione così importante e la legge sarà comunque in vigore per alcuni mesi durante le fasi più calde del processo elettorale che culminerà con le elezioni presidenziali del luglio 2018. La mossa sembra dunque destinata a placare il fervore sociale e le proteste che da sempre caratterizzano l’anno del voto.

La società civile comunque non demorde. A maggiore repressione e violenza strutturale la gente sta rispondendo con maggiori livelli di consapevolezza e organizzazione che si sono concretizzate in ondate di protesta e in impulsi di trasformazione notevoli, per esempio dopo la sparizione forzata dei 43 studenti di Ayotzinapa e la creazione di un forte movimento intorno ai genitori dei ragazzi, anche se resta aperta la sfida per il coordinamento delle tante domande e organizzazioni sociali in unico asse d’azione a partire dal loro riconoscimento come parte di un problema complesso e strutturale ma unitario e identificabile.

[Da L’Espresso – blog Rio Bravo  e l'America Latina]

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