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50 chilometri nell’amianto: inutili e pericolosi

La TAV in Valle Susa è una delle ultime opere necessarie all’Italia in termini di conseguenze economiche per la sua mancata realizzazione Lo chiarisce l’Osservatorio “I costi del non fare” guidato dal Prof. Andrea Gilardoni della Bocconi che presenterà, a Roma, il 22 novembre prossimo il rapporto sui costi che il nostro Paese dovrà sopportare per la mancata realizzazione di numerose opere infrastrutturali. Una analisi , anche superficiale, del lavoro chiarisce come i fautori della TAV perdano anche il principio di necessità di mercato della linea ad Alta Velocità, oltre alle conseguenze ambientali e di salute sempre sostanzialmente ignorate. Intanto il dibattito si è ormai trasferito sul terreno, arido, della violenza e dell’aggressione verbale favorito dalla assoluta incapacità dei sostenitori dell’Alta Velocità di aprire un serio e concreto dialogo.

La misura che consente di valutare le capacità di una classe politica è quella della “cura” e della “responsabilità” degli interessi generali del Paese governato. La disaffezione al voto – fenomeno che ormai cresce esponenzialmente ad ogni tornata elettorale – è il sintomo di un giudizio fortemente negativo dei cittadini rispetto a questa capacità. Negli ultimi due decenni – ma una corretta analisi storica dovrebbe estendere il termine fino almeno agli inizi degli anni ’80 – la “produzione” della classe dirigente politica può definirsi fallace non solo per l’ingravescente fenomeno della corruzione, ma per l’obiettiva incapacità di risolvere le grandi questioni del nostro Paese: la Giustizia, l’eccessiva burocratizzazione, il mercato del lavoro, il rapporto tra economia/finanza e Stato.

Il miglior esempio, in senso negativo, è fornito, purtroppo, dalle politiche adottate per le infrastrutture. Tra di esse la peggiore dimostrazione di indifferenza verso gli interessi generali del Paese è costituita dalla vicenda delle linea ad alta velocità della Val Susa. Ben prima dei problemi relativi alla salute ambientale e del territorio – che sia chiaro: dovrebbero costituire la priorità dell’azione politica – emerge l’assoluta irresponsabilità della classe politica che considera l’opera come imprescindibile da un punto di vista economico. Non appena il tema dell’Alta Velocità viene, però, trattato o analizzato da “scienziati”, indipendenti da posizione pregiudiziali di favore o sfavore all’opera, ne emerge l’assoluta illogicità, incongruenza e pericolosità. L’ultimo caso – in ordine di tempo – è il rapporto dell’Osservatorio “i costi del non fare” – un equipe di ricercatori guidata da Andrea Gilardoni docente di economia e gestione di impresa alla Bocconi – che verrà presentato a Roma il 22 novembre prossimo. Il costo che l’Italia dovrà sopportare – se non riuscirà a colmare il proprio divario infrastrutturale nei prossimi quindici anni – è pari a 474 miliardi di Euro. Cioè il 30% del PIL ovvero, ancora, la somma delle 20 manovre economiche messe in campo negli ultimi dodici anni.

Secondo lo Studio la mancata realizzazione delle linee ad Alta Velocità (nelle quali evidentemente non vi è solo quella della Val Susa) avrà un costo per il Paese pari a 26 miliardi euro nei prossimi quindici anni. Ciò che sarebbe la conseguenza “dell’essere tagliati fuori dalle direttrici internazionali del trasporto ferroviario” come ardentemente sostenuto dai fautori dell’opera. Peccato che il mancato ammodernamento delle strutture ferroviarie convenzionali (comprese quelle della Val Susa ) costeranno al Paese, nello stesso periodo, una somma pari a 106 miliardi di Euro: il 400% in più di ciò che può costare la mancata realizzazione della TAV in Val di Susa. Ma nemmeno l’affermazione “pseudo ecologista” del trasferimento del trasporto su strada a quello ferroviario regge: seppure venisse realizzata la linea ad alta velocità le autostrade necessitano di interventi la cui mancata realizzazione verrebbe a costare al Paese 102 miliardi di Euro. Ciò senza considerare altre priorità: la mancata ottimizzazione dei sistemi di energia avrà un costo per il Paese pari a 46 miliardi di Euro ed altri 43 miliardi di Euro è il costo che l’Italia dovrà sopportare dalle carenze della rete idriche e dalla mancata realizzazione di depuratori.

Viene davvero da domandarsi – addirittura al netto dei problemi ambientali e sanitari – quale debba essere la priorità nello specifico settore: rischiare di buttare via 102 miliardi di euro nel non indirizzare risorse vero le ferrovie convenzionali in favore di un opera la cui mancata realizzazione vale qualche miliardo di euro (i 26 stimati riguardano tutti gli interventi nazionali sulle linee ad alta velocità). E non si venga a dire che tutte queste opere si faranno nei prossimi quindici anni, visto che  nemmeno dopo 40 anni si è intervenuti definitivamente sulla Salerno - Reggio Calabria.

Tutto questo, ancora, a prescindere dai danni ambientali ed alla salute. Si badi che i favorevoli alla TAV – che pure pretendono di sostenerne l’indispensabilità economica – non negano affatto i problemi connessi allo sventramento di 50 chilometri di amianto ed uranio. Garantiscono la capacità di mettere in sicurezza il territorio. Come se non ci fossero mai state analoghe rassicurazioni sulle centrali nucleari e sui grandi poli industriali (Porto Marghera o Ilva docet ). Ma sul punto è sufficiente rimandare al documento della Comunità Montana della Valle Susa e Val Sangone la cui lettura è caldamente consigliata a coloro ch intendono comprendere nel dettaglio le ragioni delle diverse posizioni in campo.

Purtroppo occorre registrare come l’intera classe politica favorevole al progetto abbia definitivamente chiuso ogni possibilità di confronto trasferendo sul piano della violenza e della criminalizzazione l’intero dibattito. Il segnale più evidente è la linea assunta: si al dialogo, ma la TAV in Valle Susa non può essere messa in discussione. Si tratta di un ossimoro, come dire “il rumore del silenzio”. Negare lo Studio di fattibilità del progetto con la nomina di una Commissione Scientifica, nazionale od Internazionale, con caratteristiche di assoluta indipendenza è un altro segnale di incomprensibile chiusura allo stesso dialogo che, a parole, si pretende di avere. In questo quadro è gravemente irresponsabile – anche da un punto di vista politico – limitarsi a condannare gli episodi di violenza ed a censurarli acriticamente. Occorre prendere atto che la violenza ha una genesi, un origine sulla quale deve operare la prevenzione sociale e culturale, ancora prima di quella militare (che è opzione successiva ).

L’intero dialogo è stato trasferito sul terreno della violenza e dell’aggressione verbale e dovrebbero fare riflettere sul punto le lucide osservazioni del Dott. Livio Pepino – Giudice di lunga esperienza e già Presidente di Magistratura Democratica – il quale ha espresso un concetto che dovrebbe costituire il presupposto dell’azione politica: trasferire la soluzione e la gestione dei problemi sul piano della violenza incide sul futuro che verrà consegnato alle generazioni che verranno. Esse impareranno che se quello è “il modo” per trovare la soluzione, l’intera società si muoverà su una pretesa “ovvietà” della violenza. Occorre “negare” la violenza e perseguire ogni reato (ci mancherebbe), ma non basta affermare solo questo. Il fenomeno interessa ormai ampi settori del sociale e gli “scontri di piazza” sono l’esito della totale assenza di capacità di intervento preventivo della politica, oltre che di ordine pubblico in sé. Evidentemente, sotto tale ultimo profilo, se gli episodi di ingiustificata violenza delle forze dell’ordine sono così numerosi è chiara l’incapacità di gestione della piazza e di contenimento del fenomeno. Il terreno di discussione si sta progressivamente desertificando e divenendo pericolosamente arido, atteso che il piano di analisi pare essere esclusivamente quello della reciproca accusa se prima è stata lanciata la pietra o alzato il manganello. Sono molto dure, ma ampiamente condivisibili, le analisi di Livio Pepino contenute nell’ultimo suo saggio Forti con i deboli. Il Magistrato osserva come in materia di ordine pubblico vi sia stata, ormai da anni, una rinuncia alla gestione negoziata della piazza, così come si era imposta a metà degli anni 70 grazie anche al ruolo dei sindacati e dei partiti di sinistra nei cortei; dal G8 di Genova si è tornati invece allo scontro frontale, con il cambiamento dei modi della protesta e della risposta della polizia. Il Magistrato esamina in particolare l’atteggiamento dei Giudici che avrebbero usato pesi diversi nel giudicare agenti e dimostranti: “Emerge in maniera massiccia la disparità di trattamento nella gestione dei procedimenti a seconda dei soggetti coinvolti. Basta pensare ai tempi: mentre i processi per violenza o resistenza a pubblico ufficiale hanno per lo più corsie preferenziali, le indagini per denunciati soprusi delle forze dell’ordine procedono – quando procedono – a rilento”.

La situazione è, peraltro, destinata ad aggravarsi ulteriormente se l’atteggiamento pregiudiziale dei fautori dell’opera rimarrà insensibile anche all’evidenza antieconomica della TAV quale priorità di mercato. Inevitabilmente il terreno dello scontro “militare” sarà l’unico per distrarre e fuorviare l’opinione pubblico dalla realtà di un progetto che ogni giorno evidenzia la usa inutilità e pericolosità.

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