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ZES come Zombie economico speciale

Come gestire reindustrializzazioni che si rivelano quasi sempre delle dolorose, costose e fallimentari illusioni? Ora si prova con uno strumento che dovrebbe servire a tutt'altro

 

Qualche anno fa, parecchi anni fa, in Italia andava di moda dire che con la creazione delle cosiddette “zone economiche speciali” (ZES) avremmo risolto ogni nostro problema o quasi. Avremmo coltivato innovazione e imprenditorialità riscattando le zone economicamente depresse, in un idilliaco contesto di fisco e burocrazia leggerissimi, e vissero tutti felici e contenti.

Del resto, le zone economiche speciali sono presenti in giro per il mondo, soprattutto in Asia, che conta il 40% delle circa 4.500 ZES presenti sul pianeta. In Cina, le ZES contribuiscono al 22% del Pil, al 45% degli investimenti diretti esteri e al 60% dell’export. La ZES cinese più nota è quella di Shenzen, creata negli anni Ottanta. In Europa, la Polonia conta ben 14 ZES.

LE ZES IN ITALIA

In Italia, il Decreto legge 20 giugno 2017 n. 91, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2017 n. 123 (GURI Serie Generale n. 188 del 12 agosto 2017) e successive modificazioni, nell’ambito degli interventi urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno, ha previsto e disciplinato la possibilità di istituzione delle Zone Economiche Speciali (ZES) all’interno delle quali le imprese già operative o di nuovo insediamento possono beneficiare di agevolazioni fiscali e di semplificazioni amministrative.

Le ZES italiane sono otto, ubicate nel Mezzogiorno. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) destina 630 milioni di euro, divisi tra le 8 aree, per investimenti infrastrutturali volti ad assicurare un adeguato sviluppo dei collegamenti delle aree ZES con la rete nazionale dei trasporti, in particolare con le reti Trans Europee (TEN-T) per rendere efficace l’attuazione delle ZES.

A queste risorse, si aggiungono ulteriori 1,2 miliardi di euro che il PNRR riserva a interventi sui principali porti del Mezzogiorno e 250 milioni di euro sul Fondo per lo Sviluppo e la Coesione, destinati ad appositi Contratti di Sviluppo finalizzati a semplificare e ridurre i tempi degli interventi (fonte).

A questo punto, il concetto dovrebbe esservi chiaro: nelle zone economicamente depresse si creano condizioni per lo sviluppo, attraverso bassa fiscalità, bassa (e “intelligente”) regolazione, dotazione infrastrutturale (si spera), e si attende che il lievito magico funga da incubatore. Di innovazione, auspicabilmente.

IL CASO WHIRLPOOL NAPOLI

Questo in un mondo ideale, o comunque assai poco italiano. La realtà appare differente, almeno in un caso. Quello dello stabilimento Whirlpool di Napoli, che la società statunitense ha deciso di dismettere per asserita mancanza di prospettive produttive, pur mantenendo altri impianti nel nostro paese.

È la solita maledizione degli elettrodomestici bianchi: prodotti a bassa tecnologia dove la concorrenza di altri paesi a minor costo del lavoro risulta vincente. Una maledizione che tuttavia non cade dal cielo come un fulmine ma è l’effetto del disallineamento che esiste tra valore aggiunto di alcune produzioni manifatturiere e costi di sistema-paese.

Dopo l’annuncio della proprietà, si è creato l’abituale vortice di minacce, recriminazioni, sdegno, ricorsi alla Ue, promesse di mirabolanti rilanci e reindustrializzazioni. Ricordiamo tutti i proclami dell’allora ministro del Lavoro del governo gialloverde, Luigi Di Maio. Che arrivò a credere di aver scongiurato la chiusura, come ci ricorda una delle social card più spernacchiate della ormai gloriosa storia dei social media manager della politica italiana. Di Maio fu anche accusato di essere stato informato della decisione di chiudere, prima che la medesima fosse formalizzata ai lavoratori.

Di-Maio-Whirlpool

A Di Maio subentrò al ministero il collega di partito Stefano Patuanelli, che inutilmente cercò di tenere aperta la fabbrica. Iniziava quella triste via crucis già vista in altre chiusure italiane, come quella di Embraco. O quella che si sta sviluppando per GKN a Firenze. Per la quale, per ingannare il tempo (e non solo quello) durante lo stallo, ormai si prefigurano riconversioni di ogni genere.

Vi chiederete: tutto molto interessante ma che c’entrano le ZES, esattamente? C’entrano, e c’entrano con Whirlpool. Perché, prima di Natale, l’azienda ha ceduto a zero euro lo stabilimento alla ZES della Campania. Secondo quanto indicato nell’atto di vendita, la ZES Campania utilizzerà tale acquisizione ai fini della successiva cessione – mediante un bando pubblico – ad uno o più soggetti e finalizzato alla futura reindustrializzazione dell’area produttiva.

REINDUSTRIALIZZARE STABILIMENTI MORTI

La cessione ha preso corpo, come rilancio delle autorità pubbliche, dopo il fallimento di una precedente ipotesi di reindustrializzazione che avrebbe portato alla creazione di un “hub della mobilità sostenibile”. Almeno, di questo favoleggiava la viceministra al Mise, la pentastellata Alessandra Todde, che ipotizzava anche l’immancabile coinvolgimento di Invitalia. Come è andata a finire? Domanda oziosa: in nulla.

Forse perché riconvertire uno stabilimento è opera improba, e non basta sfogliare il catalogo delle attività in cui ci si può reincarnare? Come che sia, forse servirebbe riflettere su questi tentativi, anche senza spingersi a studiare la horror story di Termini Imerese, con i suoi undici anni di ammortizzatori sociali, che ricorda un po’ le erogazioni pubbliche per il sisma del Belice del 1968.

Con Whirlpool Napoli, se ho correttamente ricostruito la vicenda, al contribuente italiano è andata sinora un filo meglio: i dipendenti che sono stati licenziati hanno incassato una buonuscita condizionata alla mancata impugnazione del licenziamento e oggi percepiscono la Naspi, che dovrebbe durare ancora un anno. Non avranno tuttavia priorità nella eventuale riconversione dell’impianto; che, come detto, resta nel grembo di Giove.

Il passaggio di uno stabilimento in cerca d’autore alla zona economica speciale, che per definizione dovrebbe rappresentare l’habitat elettivo ed accogliente per nuove idee imprenditoriali, rischia di essere l’ennesima forma di pervertimento di un concetto in apparenza semplice. Servono idee? Allora mettiamo la fabbrica dismessa nell’incubatore, trasformato per l’occasione in altoforno di denaro pubblico, fondi europei inclusi. Di certo uscirà qualcosa. Ad esempio, un gettonatissimo “polo della mobilità sostenibile” ma dalla fiscalità insostenibile? Ah, saperlo.

Intanto, il rischio (per usare un eufemismo) è quello di avere degli incubatori per zombie, altrimenti detti zombie economici speciali.

 

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