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Violenze e crimini senza colpevoli. Nel buio delle carceri

Quando intervistati la madre e la sorella di Stefano Cucchi ci incontrammo vicino al luogo dove fu arrestato il ragazzo. Le due donne, seppur disperate e straziate dal dolore, avevano una speranza: la giustizia. Raccontavano il dramma di Stefano, avevano messo a nudo la loro vita, foto diffuse attraverso i media con l’unico obiettivo di scoprire la verità. Iniziarono ad informarsi e trovarono Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Aldrovandi.

Dall’alta parte però sui giornali comparivano le parole prive di fondamento dei massimi esponenti delle istituzioni: Giovanardi (allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia ed al contrasto per le tossicodipendenze) definì Stefano Cucchi un drogato morto di anoressiaLa Russa espresse piena fiducia nelle forze di polizia. Giudizi per influenzare l’opinione pubblica, prima che la magistratura accerti cosa sia accaduto, non dovrebbero esprimersi in un Paese civile e democratico.

Stefano Cucchi è stato portato in carcere e nella cartella clinica c’è scritto: “Riferisce caduta accidentale nella giornata di ivi (16/10/2009) consigliato ricovero presso FateBeneFratelli che il detenuto ha rifiutato” Inoltre lamentava dolore all’addome e alla regione sacro coccigea. In un altro referto si può leggere “Si rilevano lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente, di lieve entità e colorito purpureo. Riferisce dolore e lesioni anche alla regione sacrale e agli arti inferiori, ma rifiuta l’ispezione.”

Già questi pochi dettagli bastano per sollevare dei dubbi. Aspetteremo le motivazioni della sentenza che assove gli infermieri, ma soprattutto gli agenti di polizia penitenziaria. Da non dimenticare che Stefano la prima notte la trascorse nella caserma dei carabinieri e la mattina in tribunale aveva già il volto segnato, ma i carabinieri raramente vengono indagati.

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Da ”La pena di morte italiana”  

Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi sono morti in circostanze oscure dopo l’arresto da parte delle forze dell’ordine. Casi ormai emblematici che grazie allo sforzo delle famiglie sono arrivati in tribunale. Ma per poche storie che hanno conquistato le prime pagine dei quotidiani, ce ne sono molte altre che l’opinione pubblica ha dimenticato o ignorato. Come quella di Niki Aprile Gatti, arrestato per una frode informatica in cui è coinvolta la società dove lavora. Unico tra i 18 accusati, accetta di collaborare, e cinque giorni dopo viene trovato impiccato in prigione.

Come può un laccio da scarpe aver retto il peso di un ragazzo di 92 chili? E Fabio Benini, morto a trent’anni di infarto alle Vallette di Torino: soffriva di anoressia, aveva perso 50 chili e collassava due volte al giorno, perché nessuno ha saputo intervenire? Non bastano il sovraffollamento e l’inadeguata assistenza psicologica e sanitaria a spiegare queste storie: spesso sono proprio le forze dell’ordine a macchiarsi di omissione di soccorsoabusi e violenze contro i detenuti che dovrebbero proteggere e rieducare. In questo racconto di troppe morti sospette, Samanta di Persio ricostruisce, attraverso verbali e testimonianze dei famigliari, gli episodi più inquietanti, fa il punto sulle indagini in corso e denuncia il silenzio delle istituzioni. Perché l’Italia per legge non ammette la pena di morte e la tortura, ma forse le tollera quando avvengono dietro le sbarre. 

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