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Vent’anni senza Tondelli... chissà: alcune domande ad Andrea Pomella

Ieri in molti hanno ricordato la morte di Pier Vittorio Tondelli.
 
Tra i tanti commenti, tweet, note su Fb ho scelto un post pubblicato da Andrea Pomella (romano del’73, scrittore, collabora con la pagina culturale dell’Unione Sarda e con Ilfattoquotidiano.it.) sul suo sito (rintracciabile in versione integrale QUI) per confrontarmi con l’autore. Non tanto su Tondelli, del quali si è detto tanto e si continua a farlo, e nemmeno sulla sua morte in senso stretto. Quanto su dove siamo noi – oggi – rispetto al ‘gap’ che di anno in anno s’incrementa (tra noi e lui, lui e noi) e su cosa può voler dire ricordarne l’assenza in tempi d’immobilità, apatia e silenzi.
 
 
1. Il 16 dicembre 2011 ricorre il ventennale dalla morte di Pier Vittorio Tondelli. Hai pubblicato sul tuo blog un intervento intitolato ‘Vent’anni senza Tondelli, vent’anni di niente’. Partiamo da qui, da quel “niente”: immaginiamo di poter dare ‘nomi’ precisi, tratteggiare ciò che è mancato con l’assenza di Tondelli, cosa ti viene in mente?
 
Spesso ho sentito dire che Tondelli è stato, se non proprio il padre “biologico”, quantomeno il padre “putativo” dei Cannibali e della scena Pulp negli anni Novanta. Trovo che affermazioni come questa siano profondamente superficiali. "Gioventù cannibale" fu un’astuta operazione editoriale, un’iniziativa di successo che in Italia ha finito per fagocitare un’intera epoca letteraria. Ciò che leggiamo oggi è ancora una diretta conseguenza di quella storia. No, Tondelli era altro, era molto di più.
 
2. Sempre rispetto al “niente” ma anche al tuo intervento: hai notato che – in generale – i toni e i modi in cui si ricorda e si argomenta su Tondelli (non solo su di lui, ovviamente, ma restiamo concentrati sulla ricorrenza) sono rassegnati, rammaricati, passivi? Dov’è l’indignazione? Anche senza entrare nel merito dell’affermazione nel complesso (“vent’anni di niente”): possibile che siamo ancora fermi a guardarci indietro con la testa semi bassa riconoscendo un ‘buco’, un ‘vuoto’, ma poi?
 
Andrea Pomella
 
Il rammarico e la rassegnazione credo che derivino dalla pietà che si prova al pensiero di quanto Tondelli, al momento della morte, fosse ancora così spaventosamente giovane. Quando lui scriveva “Rimini” la crisi culturale italiana era già in atto, erano gli anni Ottanta, l’età del consumo. Lui stesso era un prodotto di quella crisi. Oggi guardiamo ancora con rimpianto a scrittori come Pasolini, Tondelli, Bianciardi, siamo come amanti col cuore spezzato, fermi a un momento felice ma inesorabilmente passato della nostra storia, e incapaci di ricostruirci una vita nostra.
 
3. Sei riuscito a “immaginare cosa avrebbe scritto Tondelli dopo quel prodigio che fu Camere separate”? Non tanto per voler diventare irriverenti, quanto per tentare un passo oltre: se possiamo riconoscere alcune delle carenze in termini di scrittura quanto di tematiche, approcci, voci intese come espressioni d’un dire che è forma ma anche sostanza, che tenta di graffiare, lasciare segni, proseguire in una qualche direzione: se possiamo Andrea, perché siamo ancora fermi? Oppure: se non possiamo, che senso ha rammaricarci per l’assenza di questa o quella mente (penna,voce, scrittura)?
 
No, non ci sono riuscito. Credo che per riuscirci dovremmo prendere sul serio la sua sofferenza di uomo, il senso religioso del tempo che traspare in quel romanzo. Il Tondelli della maturità avrebbe potuto essere, chissà, uno scrittore meditativo, l’autore di opere a metà tra memoria e saggio, forse si sarebbe scelto un eremo come Henry Miller a Big Sur. Io voglio credere che avrebbe salvato la letteratura italiana indicando un’altra strada possibile, lontana dall’iperrealismo, dal citazionismo, dalla ricerca del grottesco a ogni costo.
 
4. Quale passaggio, tra gli scritti di Tondelli, ti va ti proporre come ‘punto di partenza’, spunto da cui provare a ‘schiodarci’, ovunque siamo, qualche paragrafo che secondo te urla ‘move your mind!’?
 
C’è una frase in “Camere separate” che fa così: “Per questo lui si è sempre vergognato ed è sempre arrossito quando, nelle situazioni più svariate, su un treno, o a un party, o davanti all’ufficiale di anagrafe, qualcuno gli si è avvicinato chiedendogli che mestiere facesse. Si è vergognato perché ha immediatamente capito che se avesse detto ‘io scrivo’ lo avrebbero guardato come un pazzo”. Ecco, oggi di dire “io scrivo” non si vergogna più nessuno.
 
 
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Ringrazio Andrea Pomella.

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