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Venezuela: mai visto un golpe simile

Come al solito, l’informazione sul Venezuela non aiuta a capire molto. Sembra impossibile una analisi che non sia condizionata dal tifo per Guaidó o per Maduro, mentre in realtà è evidente che milioni di venezuelani hanno fatto scelte diverse, in primo luogo riversandosi nei paesi vicini. 

Un segno di sfiducia in chi governa, ma anche in chi sosteneva di essere l’alternativa, mentre nel suo programma c’è solo la cacciata del presidente. Ho aspettato per giorni informazioni diverse da quelle basate sul pregiudizio che si sono riversate anche sui nostri giornali, ma anche a Caracas la situazione non è chiara. Certo non è facile decifrare il senso di un “golpe” che ignora i bersagli classici (radio e TV, ministeri, nodi del traffico) e per tutto il primo giorno non ha a disposizione neanche un modesto camion con amplificazione da concerto, e deve arringare la folla con un modestissimo megafono; che ha a disposizione un piccolo nucleo di militari, ma evidentemente non ben organizzati, tanto che hanno risposto ai lacrimogeni inseguendoli in ordine sparso per rilanciarli alla polizia che difendeva la base de La Carlota. Non è assurdo pensare a una trappola in cui gli aspiranti golpisti sarebbero caduti in base a false informazioni, probabilmente fornite dagli stessi agenti del SEBIN (la polizia politica) che custodivano López e che lo avevano liberato pensando di interpretare i sentimenti di un settore importante della truppa, ma è inverosimile pensare che la trappola sia stata ordita da esperti russi o cubani come è stato annunciato subito da Washington. Ma mi permetto di dubitare anche della versione speculare che vede ovunque la regia della CIA, che ha accumulato non pochi fiaschi nella sua storia ma che non può essere ridotta così male. Che López sia passato dai domiciliari all’ambasciata spagnola, dopo essere stato rifiutato da quella cilena, non sembra un gran successo.

Comunque che il tentativo di Guaidó e López sia fallito lo si capisce non dalle proclamazioni trionfaliste di Maduro ma dal mutamento di atteggiamento di molti paesi latinoamericani, e anche europei. Basti pensare alla Spagna, che con i suoi diplomatici e anche con la sua stampa, molto seguita nell’America ispanofona, aveva osteggiato sempre con estrema faziosità Chávez, e ora sembra pentita di essersi esposta a favore dell’inconsistente Guaidó, come ha fatto capire Pablo Iglesias (https://www.aporrea.org/internacionales/n341473.html ) anche se smentito da una dichiarazione del ministro degli esteri, irritato per l’indiscrezione.

Più che la conseguenza del (relativo) successo del PSOE, un eventuale ammorbidimento di Madrid potrebbe essere la conseguenza di una conoscenza diretta del Venezuela attraverso i molti canali non solo diplomatici di contatto. La Spagna, infatti, è il secondo paese investitore nel Venezuela, subito dopo la Cina, che negli ultimi anni ha superato gli Stati Uniti, cosa che ovviamente preoccupa Washinton, ma anche Wall Street più della retorica di Maduro.

Ma cos’è stato questo strano “golpe” senza nessun obiettivo da conquistare? Perché ha sbagliato così le previsioni? Guaidó assicurava di avere l’85% di consensi ma le due piazze il primo maggio erano più o meno equivalenti. Una ipotesi credibile delle cause dell’insuccesso lo attribuisce all’esodo di alcuni milioni di venezuelani verso i paesi vicini: appare infatti verosimile che tra i migranti in fuga dal paese sia più bassa la percentuale di sostenitori del governo, anche perché gli aiuti sotto forma di pacchi alimentari dei CLAPS (Comité Local de Abastecimiento y Producción), arrivano solo a chi accetta il cosiddetto “Carnet de la Patria”, una carta elettronica considerata dagli oppositori uno strumento di controllo e quindi rifiutata. Ma pesa anche la comprensibile delusione di una parte degli oppositori per l’incapacità di Guaidó di dare seguito alle sue minacce e promesse.

Va detto peraltro che la composizione sociale e politica dell’ultima migrazione non è stata ancora analizzata. Da un lato dalle cronache risulta presente una rappresentanza della piccola criminalità venezuelana, indifferente allo scontro tra governo e opposizione, e che ha innescato con le sue attività reazioni xenofobe in Brasile, Ecuador e altri paesi, dall’altro il governo del Perù ha espulso in blocco 50 venezuelani perché avevano taciuto la loro appartenenza alla polizia. Erano venuti spontaneamente per le stesse ragioni di tutti, o si erano infiltrati per controllare gli altri?

Ero tentato di aspettare ancora per trarre un bilancio di questa fase, ma ho deciso di cominciare a segnalare alcuni dati fuorvianti che emergono dai primi commenti. Ad esempio Tommaso Di Francesco sul manifesto del 3 maggio continua a ripetere la classica fake news su Guaidó che ha frequentato “la scuola di rivolte sanguinose” che per conto degli Stati Uniti manipolerebbe ogni movimento (“dalle molte primavere arabe alla Georgia all’Ucraina”). E continua, come Pino Arlacchi o Giorgio Cremaschi a confondere le carte parlando del numero di elezioni che ci sono state in Venezuela, sorvolando sul fatto che la situazione è cambiata dopo la perdita della maggioranza chavista nell’Assemblea Nazionale nel 2015. È solo dopo di allora che le elezioni sono state solo formalmente democratiche perché gli organismi di controllo che dovevano essere neutrali erano invece faziosissimi e ostacolavano la presentazione di candidati e di intere liste, spingendo all’astensione.

Solo il regime di Maduro e l’opposizione di destra hanno la parola nella sinistra italiana, che ignora così l’ampiezza del settore chavista che rimprovera a Maduro, più che la faziosità e la sopraffazione delle minoranze, soprattutto i rapporti oscuri con le grandi multinazionali petrolifere ed estrattive che hanno fatto affari con Caracas fino a un anno fa. (vedi ad esempio)Le vere sanzioni sono scattate solo ora, esattamente il 2 maggio u. s., e non 5 anni fa come ripete Di Francesco. Le precedenti erano mirate a singoli esponenti del regime accusati per varie ragioni, compreso il narcotraffico. Tanto è vero che tutto il sistema petrolifero venezuelano era rimasto fino all’ultimo ancorato agli Stati Uniti, come destinazione del prodotto grezzo, raffinazione e smercio. La drammatizzazione del conflitto, con la brusca interruzione totale dei rapporti diplomatici con gli USA subito dopo la autoproclamazione di Guaidó, era finalizzata soprattutto a giustificare sul piano interno l’interpretazione della catastrofe economica come conseguenza di una guerra economica condotta dall’esterno mentre l’eccezionale inflazione era dovuta non solo all’irresponsabile produzione di carta moneta ma al sistema di cambio che doveva favorire le importazioni e ha ingigantito corruzione e speculazioni su importazioni fittizie.

L’amministrazione USA può essere stata tentata dalla possibilità di approfittare di un nuovo aumento delle tensioni per intervenire, ma è difficile immaginare che abbia organizzato un tentativo così maldestro. Non le manca il cinismo per giocare col fuoco, innescando una fase cruenta dello scontro per avere il pretesto di intervenire almeno con un corpo di mercenari, ma il suo successo sarebbe altamente improbabile ed anzi rischierebbe di essere una versione moderna dell’avventura di Playa Girón. Dovrebbe essere affidata a una nuova apposita impresa militare privata diretta dal fondatore della Blackwater Erik Prince, grande elettore e finanziatore di Trump. Ne ha parlato, con singolare tempestività, l’agenzia Reuters il 30 aprile. Ma con quali e quante possibilità di successo in più di allora? Il successo della Blackwater in Iraq e in Afghanistan era assicurato e facile dato che colpiva prevalentemente civili di cui nessuno si preoccupava, qui si scontrerebbe rapidamente con un vero esercito ben armato, sostenuto da una parte consistente della popolazione.

E un’impresa così palesemente “paracadutata” dall’esterno rafforzerebbe Maduro, che non è amato né venerato come reincarnazione di Chávez (che col passar del tempo ha fatto dimenticare i suoi limiti e i suoi errori), ma indubbiamente si è rafforzato per l’ostilità tenace dell’impero nei suoi confronti. Di Maduro ho scritto più volte senza reticenza, ad esempio in La democrazia secondo Maduro, ma a differenza di quel che fanno i suoi sostenitori incondizionati quando descrivono come fascisti Guaidó, López o altri oppositori, senza doverlo presentare come un mostro: semplicemente dico che non ha nulla di “socialista” o meno ancora di marxista, ma ha tuttavia una capacità notevole di usare una retorica patriottica “bolivariana” e chavista, che attribuisce agli yankee ogni responsabilità per lo sfacelo del paese. Il suo “zoccolo duro” ha resistito e resiste grazie alla riproposizione incessante di una visione manichea che attribuisce ogni male alla controparte, facilitata dal controllo ormai totale dei mezzi di informazione, che erano rimasti nel complesso pluralisti sotto Chávez, e che ora raggiunge anche siti della sinistra critica, come Aporrea, bloccata spesso sui due server governativi e raggiungibile in ogni caso con difficoltà.

Più che la milizia bolivariana, che dovrebbe arrivare a inquadrare due milioni di venezuelani, sarebbe probabilmente la mobilitazione dei barrios più poveri (anche se più difficile e meno ampia che in passato) a costituire un ostacolo a un’invasione. Più ancora dell’esercito, che è ben armato, ma è da almeno quindici anni impegnato soprattutto a fornire ministri, governatori (e manager all’industria estrattiva) più che a prepararsi a uno scontro, specie se ad esso partecipasse anche la forza armata della Colombia con cui ha avuto in diversi momenti forme di non limpida collaborazione alle spalle della protezione politica accordata da Chávez alle FARC.

Come molti altri eserciti con ruoli politici quello venezuelano è stato viziato con raffiche di promozioni (oggi avrebbe ben 2000 generali in servizio attivo, più di quanti ne abbiano gli Stati Uniti e l’intera NATO, a quanto afferma il comandante del Southcom, ammiraglio Craig S. Faller), che significano ovviamente cospicui aumenti di stipendio. Ma ha subito in varie occasioni epurazioni e sostituzioni che rivelano l’esistenza di contraddizioni.

Concludendo, non c’è dubbio che bisogna fermare l’avventurismo dei Bolton e dei Pompeo, pericolosi perché ignoranti e bugiardi, ma senza rinunciare a combattere Maduro, che già nel 2015 aveva regalato all’opposizione una maggioranza nettissima nelle ultime elezioni non truccate. I due schieramenti si alimentano a vicenda, non è il rafforzamento di Maduro e della “boliborghesia” che può fermare gli appetiti degli Stati Uniti, che senza nessun pudore ritengono sia arrivato il momento in cui potranno non accontentarsi degli sconti e delle facilitazioni che hanno ottenuto finora e puntare direttamente alle ricchezze del Venezuela. Trump può essere tentato dalla possibilità di sferrare un colpo basso non solo a Cuba, ma anche a Cina e Russia che vi hanno investito decine di miliardi di dollari, ma un intervento del genere non sarebbe facilmente accettato dalle molte altre multinazionali che hanno fatto affari d’oro nel Venezuela chavista. Le proteste russe intanto sono state molto apprezzate dalla sinistra “campista”, ma sarebbe bene non dimenticare i molti precedenti storici che insegnano che far dipendere da queste potenze le sorti di un paese può essere pericoloso.

Una mobilitazione popolare per riprendere in mano il Venezuela e le sue ricchezze è l’unica strada, molto difficile finché lo scontro avviene solo tra la casta che ha governato il paese e chi aspira semplicemente a prenderne il posto. Ma non è impossibile, se riescono a entrare in campo i tanti che avevano creduto nel progetto utopico di Chávez collaborandovi come ministri e consiglieri, e che sono stati bruscamente sostituiti da Maduro con famelici incompetenti, e che non vogliono accettare che la casta corrotta venga sostituita dai nostalgici della vecchia “Venezuela saudita” che era stata spazzata via al momento del golpe fallito del 2002. Finora la loro voce è stata soffocata dal monopolio dell’informazione, e anche dagli assalti teppistici a conferenze stampa in cui ex ministri e collaboratori di Chávez esponevano la loro spiegazione della catastrofe economica.

Molti di loro si sono impegnati individualmente ma altri hanno cominciato a collegarsi con le organizzazioni che li avevano preceduti nella critica, come Marea Socialista o la Plataforma Ciudadana en Defensa de la Constitución, ecc. Ignorate qui in Italia, dove ci si schiera per l’uno o per l’altro, senza argomenti se non il numero dei manifestanti o quello delle vittime degli scontri di piazza. Questo sito ha cercato di dare voci a questi compagni, che non si stancano di dire che tanto Maduro come Guaidó rappresentano la continuità della miseria, la perdita della sovranità del paese di fronte a interessi esterni, la corruzione dei vertici e degli affaristi, la mancanza di democrazia reale per la grande maggioranza del popolo manipolato e oppresso. Per questo respingono il tentativo golpista senza tuttavia riporre fiducia nel governo di Maduro e dei militari, e senza abbassare la guardia di fronte ad esso, avendo l’obiettivo di convocare una vera, libera e sovrana Assemblea Nazionale Costituente per iniziare la ricostruzione del paese su nuove basi. È la parafrasi delle conclusioni di un documento di Marea Socialista, che riproduco sotto in originale, ma nello stesso senso si muovono la Plataforma Ciudadana en Defensa de la Constitución e altre associazioni.

La sinistra marxista e anticapitalista deve sostenerle, rifiutando il ricatto assurdo che dice “Se non stai con Maduro, stai con Trump”. Non è vero, e ricordiamo bene i danni che ha fatto anche da noi questa logica, che ha usato lo spauracchio del Berlusconi o del Salvini di turno per far ingozzare un Renzi o un Minniti, o per far baciare e ingoiare rospi. (a.m.)

http://mareasocialista.org/2019/04/30/rechazamos-la-intentona-de-golpe-militar-de-guaido-lopez-y-sus-socios-imperialistas/

(Foto: Voice of America - Wikipedia)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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