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Vecchi e nuovi pupari ai tempi del Covid

Dietro l'incessante grancassa mediatica che si preoccupa di aggiornarci sui più virulenti ceppi del Covid scoperti in tutto il globo, operano quelli che di questa crisi cercano di trarre i maggiori profitti. Si riporta qui uno spaccato di attualità locale, a cui chi scrive cerca di restituire la coerenza che le è propria, in maniera tale da offrire un'idea di quali possano essere le manovre portate avanti per accaparrarsi le risorse del Recovery Fund. Sullo sfondo si staglia la più grave crisi socio-economica dal dopoguerra ad oggi.

Se c'è un'immagine in grado di restituire la cifra di quest'epoca, si potrebbe dire che il mondo post-Covid ha i colori sgargianti di una cancellata stagliata nel mezzo di una squallida periferia urbana. Come quelli che delimitano il magazzino di Amazon nella zona industriale di Arzano, principale hub dell'Italia meridionale del colosso americano. Secondo Repubblica sarebbero 150 gli impiegati in pianta stabile, più una ventina di autisti legati alle aziende di noleggio verso cui Amazon esternalizza il servizio di consegna. Lo stipendio medio degli impiegati "fissi" si aggira intorno ai 1500 euro lordi al mese, a cui si affianca la manodopera fornita da oltre cento precari assunti con contratti a durata trimestrale, dove si fa largo uso della chiamata ad intermittenza. I turni di lavoro sono massacranti, specie in questo periodo caratterizzato dall'essere il primo Natale pandemico di sempre. Lamentarsi però non conviene a nessuno: di questi tempi bisogna tenersi stretto il lavoro, pur se malpagato, precario e usurante, con la speranza un giorno di ottenere il posto fisso. Abbandonato il fronte del conflitto sociale tra padroni e lavoratori, oggi la tensione corre lungo una spietata concorrenza tra chi si batte per rimanere entro i confini di una società sempre più elitaria - non importa a che prezzo - e chi invece ne rimane ai margini.

Lo stradone in cui ha sede il magazzino di Amazon è intitolato a Salvatore D'Amato, figura storica dell'imprenditoria napoletana che negli anni '60 impiantò in questa zona una fabbrica di imballaggi alimentari. "Nell'arco di trent'anni l'azienda diventa il primo produttore europeo nel settore del packaging per gelati, bibite e alimenti" si legge sul sito dell'Unione Industriali di Napoli "tra i motivi del successo, la capacità di Salvatore D’Amato di guardare fin dagli inizi oltre il territorio d’origine, affrontando con determinazione e lungimiranza prima il mercato nazionale poi quello estero". Oggi il gruppo Finseda SpA conta oltre 2000 dipendenti con un fatturato prodotto al 50% all'estero. I figli Giancarlo e Antonio D'Amato ne hanno ereditato la gestione. Gli stabilimenti principali della Finseda e di altre società che producono beni per la logistica si concentrano tutti qui, quasi ad attrarre come una calamita Amazon che così può lucrare perfino su una filiera a chilometro zero. Eppure a tanta concentrazione di interessi industriali fa da contraltare un territorio poverissimo come quello di Arzano, non a caso assurto ad emblema della questione meridionale nel famoso libro "Io speriamo che me la cavo!" di Marcello D'Orta. Attualmente il Comune è retto da un commissario prefettizio dopo il terzo scioglimento consecutivo per infiltrazioni camorristiche. Il dominio criminale da queste parti è talmente forte che alcune settimane fa, nel corso delle proteste anti-lockdown, un corteo di motociclisti giunti sotto il palazzo comunale intonò dei cori offensivi contro Mimmo Rubio, giornalista di Arzano News più volte minacciato per aver raccontato le collusioni che interessavano l'ex amministrazione comunale. 

Ma se oggi la logistica (e non solo) può far volare i propri affari in modo tanto disinvolto lo si deve anche ad un mercato del lavoro balcanizzato e precarizzato oltre ogni immaginazione. Un risultato di cui può in fondo vantarsi lo stesso Antonio D'Amato, che è stato presidente di Confindustria tra il 2000 e il 2004, ossia l'arco temporale in cui iniziava una delle più feroci aggressioni del ceto padronale contro l'impianto giuslavoristico ereditato dalla Prima Repubblica: sono quelli gli anni in cui si stabilizzavano i nuovi contratti di lavoro a tempo determinato in ossequio al dogma della flessibilità, così come nel dibattito pubblico si iniziava a mettere in discussione l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori al fine di disarticolare il diritto alla reintegrazione giudiziale in caso di licenziamento illegittimo, obiettivo poi raggiunto con la riforma Fornero e con il Jobs Act di Renzi. Aggressioni che hanno privato di tutele importantissime milioni di persone, esponendole al disastro provocato dalla crisi pandemica. A loro il governo Conte può solo assegnare bonus e ristori in maniera caotica quale traduzione italica della teoria dell'helicopter money, "i soldi gettati dall'elicottero", che secondo alcuni rappresenterebbe l'unico (e disperato) sistema per far ripartire l'economia mondiale.

A catalizzare l'attenzione delle eminenze grigie del potere è oggi il Recovery Fund, intorno al quale occorre trovare la massima quadra possibile per potersi trovare pronti e drenare le risorse che arriveranno dall'Unione Europea, così come già accaduto durante gli anni della ricostruzione post-sisma, e con il solito pretesto di non lasciare abbandonato il sud contro il brutto e cattivo nord. Proprio D'Amato è la persona chiamata a mediare tra le associazioni dei ceti produttivi napoletani, ossia l'Unione Industriali e la Camera di Commercio, presiedute rispettivamente dall'ad di Hitachi Maurizio Manfellotto e il presidente Ciro Fiola. Il Mattino riporta con dovizia di particolari l'incontro che si è tenuto pochi giorni fa presso la sede in piazza Bovio. Obiettivo dei colloqui è appianare vecchi contrasti sulle nomine nei rispettivi board che avevano fatto insorgere liti giudiziarie. Oltre allo stesso D'Amato era presente anche la moglie Marilù Faraone Mennella, imprenditrice il cui nome è da anni legato ai progetti di riqualificazione dell'area orientale metropolitana attraverso il comitato di imprese Naplest da lei presieduto e rappresentante la molteplicità degli interessi che vi si raggrumano: dai porti turistici lungo la costa vesuviana al rilancio delle ville del Miglio d'Oro, fino alla rigenerazione della cintura urbana a cavallo tra Napoli e le città limitrofe. Uno degli obiettivi principali del comitato è fornire consulenza agli enti locali nella redazione dei piani strategici per lo sviluppo delle aree economicamente arretrate; in parole povere fare pressione sulla politica per inserire i desiderata di pochi negli atti di programmazione e pianificazione pubblica. Basta guardare quali sono le aziende che fanno parte del comitato: la Kuwait Petroleum Spa che ha in dote le cisterne e le delicate tubazioni che vi immettono i prodotti petroliferi dal porto, la Marina di Stabia SpA che gestisce il molo turistico di Castellammare, la CdP Immobiliare quale articolazione della Cassa Depositi e Prestiti nel cui Cda siede oggi come consigliere Francesco Floro Flores (commissario per il rilancio dell'ex area industriale di Bagnoli), la Eni SpA e via dicendo. Non proprio giovani start-up, ma concentrati di interessi di lungo corso.

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Le società facenti parte di NaplEst

L'ultimo in ordine di tempo è stato il grande progetto di Pompei, dove "L’Associazione, dopo aver stipulato protocolli con l’Unità Grande Pompei (di cui alla legge 112/2013) e i Comuni interessati ha sviluppato, con l’ausilio di professionisti di fama internazionale (prof. Josep Acebillo), un proprio progetto strategico di valorizzazione del territorio che ha rappresentato l’asse portante del Piano strategico predisposto ai sensi della legge 112/2013 ed approvato dal Comitato di Gestione di cui alla stessa legge nel marzo 2018." Un modello questo che può diventare lo spunto per un partenariato pubblico-privato in vista della gestione dei fondi del Recovery fund, come ha dichiarato la stessa Faraone Mennella sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno:

"Io sono pronta a mettere quella esperienza (Naplest, nda) a servizio di un grande progetto, in partenariato, in rete con tutti i soggetti pubblici e privati interessati. Il difficile oggi è proprio far dialogare le diverse realtà tra di loro. Se Napoli ha avuto carenze, è perché i vari attori del territorio spesso non si sono parlati. Intanto il nostro progetto per Pompei è all’interno di una legge speciale e sarà all’attenzione del Recovery fund. Alla base c’è un investimento privato importante [...]"

Ne emerge un quadro in cui l'occupazione del territorio, che verrebbe da definire clanica secondo le parole del prof Fabio Armao, consente a questi soggetti di porsi come punti riferimento di una congerie di relazioni in campo economico e politico, e soprattutto veri decisori di come dovrà essere indirizzato il fiume di capitali che verrà. E non è un caso che parallelamente alle manovre del già citato duo Fiola-D'Amato, si muova anche il mondo politico. A dimostrazione di ciò, si è tenuto pochi giorni fa un incontro tra i rappresentanti locali dei partiti di governo coordinato dal segretario provinciale del PD Marco Sarracino. L'obiettivo della discussione è riproporre l'alleanza M5S-PD-LeU-IV alle imminenti elezioni comunali per convergere su un candidato sindaco comune. Personaggi che fino a poco tempo fa si apostrofavano con frasi da querela, oggi non mostrano difficoltà a stipulare accordi. Sul piatto ci sono due questioni: una "legge speciale" per la città di Napoli, gravata da un debito di oltre 2 miliardi di euro, e il Recovery fund appunto. La crisi da Covid-19 imprime pretestuosamente un'accelerazione alla restaurazione da ancien régime, ponendosi come uno spartiacque che consente di cancellare senza tanti complimenti le pesanti responsabilità di chi in questi anni ha amministrato questo territorio. Questi ampli margini di manovra possono avvenire solo perché ormai la presenza dei blocchi sociali si è ridotta al lumicino, una condizione a cui ci consegna non il coronavirus, ma anni di demolizione dei diritti e finti ribaltamenti di tavolo. A certificare il nuovo consociativismo ci ha pensato il consiglio regionale di ieri sul bilancio, approvato in appena due ore senza che l'opposizione composta da Lega, FdI, FI e 5 Stelle abbia fiatato, consegnandoci un Vincenzo De Luca con il più ampio mandato per la programmazione e gestione dei fondi che verranno, nonostante il disastro della sanità campana sia sotto gli occhi di tutti. 

Non si tratta più di malapolitica o di questioni di "casta", come si diceva una volta. Siamo
davanti a scenari di stampo medievale che, lungi dall'esser stati messi da parte, ci restituiscono una democrazia ridotta a brandelli, in cui si registra una convergenza di intenti spaventosa tra chi amministra e chi cura il proprio interesse particolare. Una situazione nel quale lo spazio pubblico è cannibalizzato grazie all'assenza di chi dovrebbe riempire quello spazio: il popolo organizzato. Scenari che non possono non destare preoccupazioni se si pensa che è nei prossimi mesi e nei prossimi anni che questa crisi chiederà il conto più salato.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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