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Uscire dalla crisi? Si può, lavorando molto meno

La disoccupazione negli Stati Uniti resta sopra al 9%, mentre in Italia, secondo i dati ISTAT di giugno, nell’ultimo anno le grandi imprese hanno perso lo 1,2% della propria forza lavoro.

Sono questi numeri, che rendono conto della vastità della crisi, che dovrebbero essere al centro della nostra attenzione sviata da questioni, quali quella delle dichiarazioni escrementizie del nostro patetico Presidente del Consiglio, cui è giustissimo dedicare il tempo di un’invettiva, ma che certo hanno poca o nessuna influenza sui destini nostri e dei nostri figli.

La crisi in cui si trovano tutti i paesi più industrializzati, ha poco o nulla a che vedere con le crisucce, come quella del ‘73 che abbiamo conosciuto dal dopoguerra all’altro ieri ed è ancor più profonda di quella che si trascinò per tutti gli anni 30.

La crisi d’inizio millennio si è manifestata dapprima come crisi finanziaria, causata dalle allegre pratiche creditizie della banche anglosassoni, ed è proseguita con l’esplosione della bolla immobiliare che i bassissimi tassi d’interesse hanno contribuito a causare in tutto l’occidente e, pare ora, anche in Cina, ma le sue cause ultime sono assai più profonde e la sua risoluzione definitiva è legata alla nostra capacità di rivedere la struttura stessa delle nostre economie.

Appare evidente, a chi voglia ragionare levandosi dagli occhi le fette di salame dell’ideologia e del pregiudizio, che il modello di sviluppo che è stato causa ed è effetto della rivoluzione industriale, basato sul più, ha raggiunto i propri limiti.

Si era creduto che fosse possibile spingere all’infinito sul pedale della produzione, realizzando sempre più beni, nonostante le risorse del pianeta infinite non siano e, soprattutto, nonostante non siano infiniti i bisogni dei suoi abitanti.

Allo straordinario aumento di produttività reso possibile dalle innovazioni tecnologiche, si è risposto in tre modi: reiterando la soddisfazione del bisogno da parte dei consumatori (una automobile per famiglia, una per ogni adulto, due per ogni adulto ...), producendo beni effimeri che devono essere sostituiti sempre più velocemente (alla giacca di tweed che durava una vita si sostituisce quella da due soldi, che però puoi indossare solo tre volte), e inventando bisogni continuamente nuovi, da soddisfare con altri prodotti dalla durata tanto limitata quanto quella di una moda adolescenziale.

Tutto questo non basta. I cittadini dei paesi più avanzati sono arrivati ai limiti delle proprie capacità di consumo; non possono mangiare di più, guidare più automobili o riempirsi ulteriormente i guardaroba. C’è un limite alla capacità di creare bisogni fittizi e lo abbiamo raggiunto. Il costo delle materie prime, il fatto che per esse dobbiamo competere con i paesi di nuova industrializzazione, il fatto stesso che questi paesi ci abbiano sottratto una quota delle nostre capacità di produzione, è un problema tutto sommato secondario.

La Cina, per capirci, esporta oggi poco più di quanto esporti la Germania; al netto di quello che importa è certo un fattore nuovo, importantissimo, del commercio estero, ma non è il gigante infinitamente grande, il divoratore di mercati, che viene descritto da tanti.

Si produce troppo. Tutto lì. E per produrre servono sempre meno operai.

Negli Stati Uniti meno del 10 per cento della popolazione lavora, a qualunque titolo, nell’industria. In Italia, contribuisce a produrre qualcosa solo un quarto della forza lavoro.

Il resto della popolazione attiva è impegnato in uno sterminato terziario che in Italia come negli Stati Uniti o in qualunque altro paese dell’occidente  appare ipertrofico, costosissimo e, in buona sostanza, improduttivo.

Inutile, cioè, ai fini del miglioramento della qualità della vita.

Un terziario che non serve a distribuire beni o a fornire servizi davvero utili, che risponde a bisogni tanto artificiali quanto quelli che erano soddisfatti dal Tamagochi (ve lo ricordate? L’animaletto informatico che fu il successo di un anno).

Avvocati e commercialisti, per dire solo di un paio di queste categorie, svolgono certo funzioni importanti, ma altrettanto certamente non è necessario avere delle legislazioni fiscali tanto complesse da rendere necessari cento dei primi anziché dieci o leggi tanto farraginose ed un livello di litigiosità tale da giustificare la presenza, in Italia, di un avvocato ogni 280 abitanti.

Su quanto siano davvero utili i lavoratori impegnati nel settore del credito e della finanza, poi, sarebbe meglio, di questi tempi, stendere un velo pietoso.

Appare evidente quale dovrebbe essere la risposta della nostra società, prima ancora che delle nostre economie, alla situazione che si è determinata.

Dobbiamo lavorare... di meno. E dobbiamo produrre di meno.

Dobbiamo lavorare meglio, smettendo di sprecare risorse umane e naturali in giochini senza senso, e dobbiamo produrre meglio, beni che assolvano la funzione per cui sono stati creati e lo facciano il più a lungo possibile.

Dobbiamo smettere di scervellarci per trovare nuovi impieghi al nostro potenziale umano, smettere di creare infelicità e nevrosi destinando la maggior parte delle nostre popolazioni a lavori privi di una vera utilità, solo o quasi, per ubbidire al comandamento biblico.

Le 40 o 38 ore settimanali di lavoro (che spesso diventano 45 o 50) non sono state scritte nelle tavole di alcuna legge; se andavano bene negli anni ’30, dovrebbero diventare 20 o forse 10 se si tenesse conto di quanto è enormente aumentata la produttività rispetto ad allora.

Il lavoro, questa risorsa ora sovrabbondante e per questo sprecata, deve tornare ad essere una risorsa preziosa, da non sciupare: va, in buona sostanza, retribuito molto meglio. Parte del fiume di denaro inghiottito dal nostro scarsamente utile terziario deve tornare a coloro cui è stato in prima istanza sottratto: a chi ancora lavora nelle fabbriche e nei laboratori.

I nostri produttori devono lavorare meno, per produrre meglio, essendo pagati molto meglio; questa è l’unica ricetta per ripartire e, soprattutto, per creare un modello di sviluppo sostenibile.

L'alternativa? Potremmo sempre inventarci l'auto usa e getta o introdurre una legislazione tributaria che richieda dichiarazioni in caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla.

Resta da chiedersi se vi siano le risorse per un simile tipo sviluppo (e non vi sono) e se sarebbero felici i nostri nipoti alle prese con l'Accadico.

A giudicare dalle espressioni dei volti che riempiono il metrò, il lunedì mattina, ne dubito molto.

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